Distillazione crisi vino 2023

Attivata dal MASAF  la distillazione crisi del vino mediante il DM 0400039 del 28 luglio 2023 (distillazione crisi vino 2023).


Il citato Decreto Ministeriale MASAF del 28 luglio 2023 porta le disposizioni nazionali di attuazione del regolamento delegato (UE) n. 2023/1225 della Commissione, per quanto riguarda la misura della distillazione di crisi per la Campagna 2022/2023.

Secondo la Commissione Europea, ciò si giustifica poiché:

L’attuale situazione economica è caratterizzata da un costo della vita generalmente elevato, che incide sul consumo e sulle vendite di vino, e da un aumento dei costi dei fattori di produzione per la produzione agricola e la trasformazione del vino, che incidono sui prezzi del vino. Tali circostanze minacciano di perturbare notevolmente il mercato vitivinicolo dell’Unione in quanto colpiscono diversi importanti Stati membri produttori, aumentando le scorte di vino disponibili a livelli che rischiano di diventare insostenibili in vista della prossima stagione di vendemmia e produzione e causando difficoltà finanziarie e problemi di liquidità ai produttori di vino.

Quali vini concerne la distillazione di crisi?

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Sono ammessi alla misura i vini rossi o rosati (esclusi quindi i vini bianch),

      • aventi denominazione di origine
      • aventi indicazione geografica
      • senza denominazione di origine o indicazione geografica.

Requisiti per accedere alla distillazione di crisi

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Beneficiari i produttori di vino, in regola con la presentazione delle dichiarazioni vitivinicole.

Il vino da avviare alla distillazione deve essere detenuto alla data del 31 maggio 2023 e risultare dai registri di cantina alla stessa data.

L’alcool, derivante dalla distillazione, è utilizzato esclusivamente per uso industriale, in particolare per la produzione di disinfettanti e di farmaci, o per fini energetici: una triste fine per un vino DOC e per tutta la poesia che esso comporta!

Modalità operative

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Operazioni di distillazione: da eseguirsi entro il 15 ottobre 2023.

Importo dell’aiuto:

      • stabilito dalla Regione interessata, in base a criteri oggettivi e non discriminatori
      • non può essere superiore all’80% del prezzo medio mensile più basso rilevato nella campagna 2022/2023.
      • richiesta dell’aiuto:  entro il 10 agosto 2023 va presentata ad Agea OP, con modalità telematica, allegando il Contratto di distillazione non trasferibile.

Ogni produttore può stipulare al massimo due contratti di distillazione per i volumi di vino giacenti in cantina.

In base al contratto di distillazione, il distillatore deve trasformare il vino in alcool, avente almeno la gradazione di 92°, entro il 15 ottobre 2023.

A garanzia del corretto conferimento del vino da avviare alla distillazione, il produttore dovrà presentare apposita garanzia fidejussoria.

Che senso ha la distillazione crisi vino 2023?

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Forse va fatta una riflessione sincera e profonda, sopratutto se si considera che il problema delle eccedenze è ben più datato dell’aggressione russa all’Ucraina.

La distillazione di crisi del vino era la regola nella seconda metà del secolo scorso, che si sperava di non vedere più per effetto delle profonde trasformazioni apportate alla PAC (Politica Agricola Comune) nell’anno 2008, quando si passò da un sistema di aiuti al reddito degli agricoltori agli quello degli aiuti alla commercializzazione dei prodotti.

Distillare vino (ancor più se DOC) è assurdo per molteplici ragioni.

Sul piano morale, è orrendo vedere distruggere il cibo.

Sul piano politico ed economico, ė inaccettabile usare il denaro dei contribuenti per operazioni la cui finalità è mantenere alto il prezzo dei prodotti che i contribuenti stessi, in qualità consumatori, cercano poi di acquistare (cosa preclusa si poveri, cui resta l’aceto).

Sinceramente, ciò pare ancora più incomprensibile, in un momento storico in cui si lotta contro l’inflazione (alzando i tassi di interesse, con tutto ciò che consegue di negativo), in Europa e nel mondo:  il prezzo del vino rientra nel calcolo dell’inflazione!!!.

 

Distillazione di crisi: un assurdo nell’ottica della sostenibilità.

 

Passiamo ad una critica in ottica “più moderna”.

E’ sostenibile sul piano sociale un vino, il cui prezzo viene artificialmente mantenuto alto?

Sul piano della sostenibilità ambientale, è ridicolo promuovere il vino sostenibile, se il sistema accetta (ed anzi richiede) che venga distrutto quanto in precedenza prodotto, esercitando un impatto sull’ambiente!

Infatti, quanta C02 é stata riversata nell’aria per coltivare l’uva e poi trasformarla nel vino che, per essendo buono, verrà distrutto?

Quanti fitofarmaci sono stati dispersi nelle vigne?

Nel frattempo, la superficie agricola destinata a produrre vino aumenta (seguendo le regole sull’autorizzazione a nuovo impienti vitati – ai sensi degli art. 62 e seguenti del Regolamento UE/1308/2013 – che erano state decise nel momento in cui si pensò fosse teminato il periodo della distillazione di crisi).

Tutto ciò, per cosa?

Ad ogni modo, l’Italia non è sola, poiché anche la Francia affronta la stessa situazione: 200 milioni di euro sono appena stati stanziati per la distillazione di crisi di vino francese.

Però, in questo caso, non vale il detto “mal comune mezzo gaudio”, ma il contrario: il problema ha purtroppo dimensione ancora maggiore.

Nel frattempo, il nostro pieneta non attende più un rinsavimento …

 

distillazione crisi vino 2023

 

Insomma: vogliamo favorire il riscaldamento globale, producendo vino che poi getteremo nella spazzatura (producendo altra CO2 per farlo)?

 

 

 

impianti solari agrivoltaici

Impianti solari agrivoltaici: migliorare la sostenibilità del settore agricolo beneficiando degli incentivi del PNRR.

 

Il settore agricolo è uno dei principali settori produttivi del nostro sistema economico, indispensabile per l’alimentazione, nonché per la gestione e la conservazione del patrimonio naturale.

Purtroppo, però, esso si rende responsabile, in Europa, del dieci per cento delle emissioni di gas serra.

“Italia Domani”, il Piano di Ripresa e Resilienza (PNRR) – presentato dall’Italia nel contesto del programma Next Generation EU – prevede investimenti e un pacchetto di riforme, che si sviluppa intorno a tre assi strategici (digitalizzazione e innovazione, inclusione sociale e transizione ecologica) e mira anche a contrastare questo effetto collaterale.

Il principale obiettivo posto alla base del progetto, infatti, è quello di condurre l’Italia lungo un percorso di cambiamento a livello ecologico e ambientale che possa essere d’ausilio per assottigliare i divari territoriali, generazionali e di genere.

Uno degli strumenti su cui si vuole puntare, in particolare per migliorare l’impatto dell’agricoltura sull’ambiente, sono gli impianti solari agrivoltaici.

Cosa sono gli impianti solari agrivoltaici

Si tratta di un innovativo utilizzo del terreno che sta prendendo piede negli ultimi anni.

Il fondo, infatti, oltre ad essere sfruttato per la coltivazione di vegetali, viene destinato altresì alla produzione di energia fotovoltaica.

Gli impianti solari agrivoltaici concretizzano infatti un virtuoso trait d’union, che pone in relazione le fonti rinnovabili, la sostenibilità ambientale, la tutela della biodiversità con l’attività agricola, consentendo la convivenza e l’interazione tra la generazione dell’energia a partire dai raggi del sole e le pratiche di coltivazione del fondo.

Le Linee Guida in materia di impianti agrivoltaici – messe a punto dal Ministero della Transizione Ecologica, con il contributo di ENEA – forniscono delle puntuali definizioni.

L’impianto agrivoltaico (o agrovoltaico, o ancora agro-fotovoltaico) è, dunque, un impianto fotovoltaico, che consente di mantenere la continuità delle attività di coltivazione agricola e pastorale sul sito di installazione.

Per impianto agrivoltaico avanzato si intende un impianto agrivoltaico che (conformemente a quanto stabilito dall’articolo 65, comma 1-quater e 1-quinquies, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, e successive modificazioni), non compromette la continuità delle attività di coltivazione agricola e pastorale,  anche eventualmente consentendo l’applicazione di strumenti di agricoltura digitale e di precisione.

Ciò grazie al montaggio di moduli elevati da terra, i quali possono anche ruotare per “seguire il sole”.

Inoltre, gli impianti solari agrivoltaici devono prevedere la contestuale realizzazione di sistemi atti a monitorarel’impatto dell’installazione fotovoltaica sulle colture, il risparmio idrico, la produttività agricola per le diverse tipologie di colture, la continuità delle attività delle aziende agricole interessate, il recupero della fertilità del suolo, il microclima, la resilienza ai cambiamenti climatici”.

Benefici degli impianti solari agrivoltaici

Sono molteplici, tra cui:

    • la maggiore resa dei terreni (in relazione a specifiche colture);
    • il minore consumo di acqua per l’irrigazione, grazie ai moduli fotovoltaici che garantiscono un parziale ombreggiamento;
    • una fonte aggiuntiva di reddito che permette agli agricoltori di fare investimenti nella propria attività e guadagnarne in termini di competitività;
    • la collaborazione tra agronomi, imprese agricole e stakeholder del settore.

Quali colture per gli impianti solari agrivoltaici?

Il PNRR si occupa di questa tecnologia, con l’intenzione di rendere sempre più capillare la presenza di impianti agro-voltaici di medie e grandi dimensioni sul territorio nazionale.

La misura di investimento nello specifico consiste, innanzitutto, nell’implementazione di sistemi ibridi agricoltura-produzione di energia che possano conciliare lo sfruttamento della luce solare con l’utilizzo dei terreni per fini agricoli, incrementando la sostenibilità ambientale ed economica delle imprese aderenti, anche avvantaggiandosi di bacini idrici presso i quali possono essere installate soluzioni galleggianti.

Mediante le citate  Linee Guida in materia di impianti agrivoltaici, le colture sono state suddivise in cinque categorie, individuate in base a come queste reagiscono alla fisiologica riduzione luminosa, appunto derivante dall’ombreggiamento creato dagli impianti fotovoltaici istallati sul fondo.

    • colture “molto adatte”, quelle sulle quali l’ombreggiatura produce effetti positivi sulle rese quantitative, tra cui possiamo citare spinaci e patate.
    • colture “adatte”, ossia quelle indifferenti all’ombreggiatura moderata, come le carote e i finocchi.
    • “mediamente adatte” vengono menzionate le cipolle e le zucchine.
    • “poco adatte” le barbabietole da zucchero e le barbabietole rosse.
    •  “non adatte” quelle che presentano un’importante necessità di esposizione alla luce, per le quali anche una sua pressoché insignificante diminuzione cagionerebbe una grave flessione della resa (alberi da frutto, del frumento e del mais, ad esempio).

Dove installare gli impianti solari agrivoltaici?

Per quanto concerne, invece, le aree su cui si possono andare a collocare gli impianti in questione, va considerato quanto disposto dall’art.20, comma 1, d. lgs. n. 199/2021, che rimette a livello ministeriale l’identificazione dei principi e criteri omogenei per l’individuazione delle superfici e delle aree idonee e non idonee all’installazione di impianti a fonti rinnovabili.

Sono considerate aree idonee all’installazione di impianti solari agrivoltaici (ai sensi del successivo comma 8, lett. c), quater di detto d. lgs. 199/2021), “le aree che non sono ricomprese nel perimetro dei beni sottoposti a tutela ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, né ricadono nella fascia di rispetto de i beni sottoposti a tutela ai sensi della parte seconda oppure dell’arti colo 136 del medesimo decreto legislativo.  …  la fascia di rispetto è determinata considerando una distanza dal perimetro di beni sottoposti a tutela di sette chilometri per gli impianti eolici e di un chilometro per gli impianti fotovoltaici”.

Quale procedura per installare gli impianti solari agrivoltaici?

Nei procedimenti di autorizzazione di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili su aree idonee, ivi inclusi quelli per l’adozione del provvedimento di valutazione di impatto ambientale, l’autorità competente in materia paesaggistica si esprime con parere obbligatorio non vincolante. Decorso inutilmente il termine per l’espressione del parere non vincolante, l’amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione”.

Così stabilisce  l’art.22, comma 1, lettera a) di detto d. lgs. 199/2021.

In merito al rilascio dei provvedimenti autorizzatori, il TAR di Lecce (sentenza 1750/2022) ha di rendente sancito:

 

4.2. Non esiste, di per sé, un diritto assoluto e incondizionato all’installazione di impianti volti alla produzione di energia, sia pure “pulita” (o verde: green), nel senso di energia prodotta direttamente dal Sole, (e ciò anche nell’ipotesi in cui si tratti di impianti “agrivoltaici”, con insistenza in aree “agricole”), e non mediante il procedimento (assolutamente impattante sul Pianeta, e nel medio/lungo periodo non più sostenibile) di estrazione del carbon-fossile.

In senso opposto, tuttavia, non esiste neppure un generalizzato divieto – del pari assoluto e incondizionato – all’installazione di impianti siffatti, men che meno in caso di insistenza, in situ, di altri impianti analoghi.

4.3. Per dirla con le parole dell’Arbiter Constitutionis: “Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca, e non è possibile individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri; … la tutela deve essere sempre sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro, giacché se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe tiranno nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette” (Corte cost, n. 85/13).

Sotto questo profilo, non si vede come si possa decampare dal vero “fulcro” della questione, vale a dire la non qualificabilità dell’impianto in questione come “fotovoltaico”, ma come agrivoltaico”.

6.1. Quello dell’agrivoltaico è, infatti, un settore di recente attenzione. Esso non è ancora molto diffuso, ma sta assumendo (grazie anche alle spinte provenienti dal legislatore nazionale e sovranazionale; il punto verrà ripreso infra) forma e consistenza sconosciute appena dieci o cinque anni orsono.

6.2. Trattasi di un utilizzo “ibrido” di terreni agricoli, tra produzioni agricole e produzione di energia elettrica, attraverso l’installazione, sugli stessi terreni, di impianti fotovoltaici, che non impediscono tuttavia la produzione agricola classica.

6.3. In particolare, come più volte chiarito da questa Sezione (cfr. sentt. nn. 586/22 e 1267/22), mentre nel caso di impianti fotovoltaici tout court il suolo viene reso impermeabile, viene impedita la crescita della vegetazione, e il terreno agricolo perde quindi tutta la sua potenzialità produttiva, nell’agrivoltaico l’impianto è invece posizionato direttamente su pali più alti, e ben distanziati tra loro, in modo da consentire alle macchine da lavoro la coltivazione agricola sia al di sotto dei moduli fotovoltaici, e sia tra l’uno e l’altro modulo.

6.4. Per effetto di tale tecnica – sicuramente innovativa, in quanto praticamente assente sino a pochi anni fa – la superficie del terreno resta permeabile, come tale raggiungibile dal sole e dalla pioggia, e dunque pienamente utilizzabile per le normali esigenze della coltivazione agricola.

7. Definiti in tal modo i tratti caratteristici dell’agrivoltaico, e differenziali rispetto al fotovoltaico “puro”, non si comprende che valenza assumano, nel caso in esame, le statistiche offerte dalla Regione nell’atto impugnato, in ordine al numero e consistenza di impianti “fotovoltaici” sparsi sul territorio regionale, nonché su quello in esame. Trattasi, invero, di fenomeni non sovrapponibili tra di loro, per la semplice ed elementare considerazione che:

– nel fotovoltaico, le potenzialità agricole del fondo vengono azzerate, ora e per il futuro (essendo del tutto problematica la ripresa dell’attività agricola, dopo decenni di utilizzazione dei fondi per le esigenze della produzione di energia, sia pure green);

– nell’agrivoltaico, invece, le esigenze della produzione agricola restano intatte, e sono anzi spesso accresciute, in quanto il necessario “ibrido” tra le esigenze della coltivazione e quelle della produzione di energia pulita porta sovente a recuperare, da un punto di vista agronomico, fondi che versano in stato di abbandono.

8. Pertanto, a differenza di quanto adombrato dalla Regione, non di rapporto di genus ad species può parlarsi nel caso in esame, ma di progressiva gemmazione di un istituto “nuovo” (l’agrivoltaico), dalla sua casa madre (il fotovoltaico), con conseguente acquisto di una ragione sociale propria.

9. Pertanto, sarebbe sicuramente rilevante – nell’odierno giudizio – conoscere il numero e la consistenza di impianti agrivoltaici insistenti in ambito regionale, e nell’agro brindisino in particolare.

Senonché, la Regione non ha offerto contributo sul punto, limitandosi ad esporre il numero e la potenza degli impianti fotovoltaici classici, privi di ausilio ai fini in esame, in quanto fondati su una errata qualificazione – da genus ad species – del rapporto tra fotovoltaico e agrivoltaico; rapporto dal quale, per le ragioni prima dette, va operata un’affrancazione.

10. Detto in altri termini: non si comprende come un impianto che combina produzione di energia elettrica e coltivazione agricola (l’agrivolotaico), possa essere assimilato ad un impianto che produce unicamente energia elettrica (il fotovoltaico), ma che non contribuisce tuttavia – neppure in minima parte – alle ordinarie esigenze dell’agricoltura.

All’evidenza, non si tratta di rapporto di genus ad species, ma di fenomeni largamente diversi tra loro, nonostante la loro comune base di partenza (la produzione di energia elettrica da fonte pulita).

E in quanto situazioni non sovrapponibili, non possono essere assimilati quoad aeffectum.

….

11. E che l’agrivoltaico, in questi ultimi anni, abbia acquisito una dignità autonoma, emerge dalla legislazione eurounitaria e nazionale sviluppatasi negli ultimi anni sul tema delle energie rinnovabili.

13.2. Per tali ragioni, non si può sic et simpliciter ricondurre gli impianti agrivoltaici all’ambito del fotovoltaico puro, come invece la Regione pretende di fare, con un semplice e anacronistico rapporto (ripreso anche dalla sentenza di questo TAR n. 1376/22, sulla quale v. infra, punti nn. 27 e ss.) di genus ad species.

13.3. Forse quest’assimilazione poteva essere compiuta alcuni anni orsono.

Fondi del PNRR per impianti solari agrivoltaici

Il PNRR italiano si pone un obiettivo ambizioso: potenziare la competitività del settore agricolo, abbattendo i costi di approvvigionamento energetico, che attualmente si attestano a oltre il venti per cento dei costi variabili delle aziende agricole, apportando, unitamente, sensibili miglioramenti nelle prestazioni climatiche-ambientali.

In termini numerici, l’obiettivo del PNRR è quello di arrivare, a regime, ad una capacità produttiva degli impianti agro-voltaici di 1,04 GW, che produrrebbe circa 1.300 GWh annui, garantendo l’altro obiettivo, che è quello della riduzione delle emissioni di gas serra stimabile in circa 0,8 milioni di tonnellate di CO2.

PNRR - Sviluppo Agrivoltaico


 

impianti solari agrivoltaici

 

(a cura della dott.ssa Gerarda Monaco)

Tipicita vini DOP IGP

La tipicità vini DOP IGP, rappresentante l’espressione dei loro specifici territori di riferimento,  viene individuata nei rispettivi disciplinari di produzione.


La tipicita vini DOP IGP costituisce dunque la “firma” di ciascun territorio sui propri vini. Viene espressa nei disciplinari di produzione. Ma è cosa immediata per tutti percepirla dalla loro lettura?

I disciplinari di produzione, chiave di volta per la tutela legale delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche.

 

La tipicità dei singoli vini DOP e IGP trova espressione (o, meglio, sintesi) nei rispettivi disciplinari di produzione, i quali rappresentano l’elemento cardine per la tutela delle denominazioni geografiche (DOP, in Italia suddivise in DOC e DOCG) e le indicazioni tipiche (IGP, in Italia definite anche IGT), sia a livello dell’Unione Europea (per effetto degli art.92 e ss. del regolamento UE/1308/2013), sia al di fuori dei suoi confini, grazie ai numerosi accordi intenazionali conclusi al riguardo dall’UE con gli Stati terzi.

Disciplinari vini DOP - IGP italiani

All’interno di ciascun disciplinare, poi, i punti più indicativi circa la tipicità del vino (Tipicita vini DOP IGP) sono i “requisiti organolettici” (dato peraltro obbligatorio ai sensi della legislazione unionale: art.93, comma 2, del regolamento UE/1308/2013).

Inoltre, i disciplinari devono anche indicare le caratteristiche climatiche, geologiche e morfologiche dei loro territori , dovendo chiarire “il legame fra la qualità o le caratteristiche del prodotto e l’ambiente geografico“, ma intuirne l’influenza sulla tipicità del vino diviene discorso meno intuitivo.

La tutela legale di DOP e IDP prescinde tuttavia dalla distinguibilità dei prodotti commercializzati con il nome oggetto di protezione.

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A rigore, però, secondo il diritto europeo la tutela in favore delle denominazioni di origine (DOP) e delle indicazioni geografiche viene concessa anche se il prodotto (vino o alimento), che vuole fregiasi del nome protetto (e cioè il nome geografico del proprio territorio, costituente la DOP o la IGP) non presenta i caratteri della distinguibilità (Corte di Giustizia, sentenza «Torrone di Alicante» del 10 novembre 1992, in causa C-3/91 )

In effetti, per il diritto europeo (Corte di Giustizia, sentenza 14 settembre 2017, EUIPO/ Instituto dos Vinhos do Douro e do Porto, in causa C‑56/2016, punto 82), la tutela delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche è piuttosto volta a difendere la loro reputazione e

costituisce uno strumento della politica agricola comune mirante essenzialmente a garantire ai consumatori che i prodotti agricoli muniti di un’indicazione geografica registrata in forza di detto regolamento presentino, a causa della loro provenienza da una determinata zona geografica, talune caratteristiche particolari e, pertanto, offrano una garanzia di qualità dovuta alla loro provenienza geografica, allo scopo di consentire agli operatori agricoli che abbiano compiuto effettivi sforzi qualitativi di ottenere in contropartita migliori redditi e di impedire che terzi si avvantaggino abusivamente della reputazione discendente dalla qualità di tali prodotti 

Le fonti della tipicità: le caratteristiche del territorio e l’influenza umana, come individuati dal disciplinare di produzione.

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Ciò posto, se poi si esaminano i “requisiti organolettici” imposti da ciascun disciplinare, si realizza che – essendo essi volutamente espressi in modo estrermamente sintetico – quanto ivi descritto rappresenta in realtà una sorta di “macro-modello”.

Insomma, è un qualcosa piuttosto lontano rispetto alla descrizione che solitamente un sommeiler/assaggiatore rende in fase di degustazione, ove peraltro le schede di valutazione tendono a concentrarsi sulle sensazioni organolettiche stesse (di cui si ricerca la loro qualità ed equilibrio), lasciando però poco o nessuno spazio alla valutazione della tipicità (si veda la scheda ONAV, ad esempio).

Il disciplinare, infatti, definisce sì “a grandi linee” le caratteristiche essenziali del vino DOP o IGP, ma non perviene al risultato (sarebbe in effetti una cosa “terribile”) di standardizzarle.

All’interno del “macro-modello”, quindi, iI disciplinare lascia un certo spazio di libertà, il quale consente di valorizzare al massimo le peculiarità di ogni singolo appezzamento all’interno del territorio di produzione (sempre più spesso diviso in sotto-zone o aree geografiche, si pensi al caso del Barolo) nonché permette all’enologo di esprimere la propria arte.

Ciò nonostante, nel momento in cui il produttore di un vino, atto a divenire DOP (DOC o DOCG), vuole immettere sul mercato il proprio prodotto, i relativi campioni sono soggetti all’esame (svolto “alla cieca”) dalle competenti commissioni di degustazione, che ne valutano l’ideoneità e, dunque, anche la tipicità (tipicita vini DOP IGP).

Solo se tale esame viene superato, il vino potrà portare in etichetta il nome del proprio territorio (accompagnato dalla pertinente menzione: DOC o DOCG), il quale viene così a rappresentare una garanzia di qualità per il consumatore (e cioè il vino è conforme ai requisiti imposti dal disciplinare di produzione).

Il rispetto del disciplinare assicura sempre la tipicità?

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La tipicità, rappresentante la “comune nota di fondo” che i differenti territori conferiscono ai loro rispettivi vini (tipicita vini DOP IGP),  è quindi frutto delle molteplici interazioni tra l’insieme dei fattori presi in considerazione dai relativi disciplinari.

“Nota di fondo” che troverà poi una propria “declinazione” – tutta da scoprire – per effetto delle varie annate, delle differenze morfologiche e geologiche dei singoli appezzamenti, delle scelte dell’enologo, etc …

Tuttavia, il rispetto del disciplinare deve necessariamente portare alla realizzazione di un vino che esprime la tipicità delineata nel disciplinare stesso.

Questo passaggio non può mancare, altrimenti il vino – per quanto buono o sublime – non è espressione del territorio di riferimento, ma solo del suo produttore (il che è nobile, ma esula dalla filosofia delle denominazioni di origine).

La situazione appare però molto complessa, giacché in alcuni casi ad uno specificio terriorio corrisponde una sola DOP; in altri casi, lo stesso territorio è frazionato in varie distinte DOP;  in altri ancora, sullo stesso territorio si sovrappongono – almeno parzialmente – diverse DOP e/o IGP. Insomma, siamo nel mondo della complessità, ma proprio ciò  rappresenta uno degli elementi di fascino di quello dei vini.

Ciò posto, ragionare in termini di tipicità diviene tuttavia più difficile, con riferimento alle cosiddette DOC “regionali”, e cioè quelle che coincidono con l’intero terriorio di una Regione (quali Piemonte, Sicilia, ….).

In effetti, la loro ampiezza geografica porta necessariamente a comprendere zone dalle caratteristiche geologiche, morfologiche e climatiche molto eterogenee fra loro.

Inoltre, i relativi disciplinari molto spesso si limitano a richiamare i requisiti chimico-fisici (o, comunque, non si allontano molto da loro) previsti dalla normativa unionale (Allegato VII al regolamento 1308/2013) per le varie categorie di prodotti vitivinicoli.

Di conseguenza, nel caso delle DOC “regionali”, la tutela trova forse maggiore ragione nella volontà di proteggere la reputazione commerciale (conformemente alle indicazioni date dalla Corte di Giustizia nelle citate sentenze) di tali nomi geografici. Inoltre, il consumatore è garantito da controlli più incisivi, rispetto a quelli effettuati sui vini senza denominazione.

Ne discende che il ragionare in termini di tipicità si addice forse maggiormente per le denominazioni con un’estensione territoriale più limitata, per quanto anche in questo caso il rispettivo territorio possa presentare caratteristiche eterogenee al suo interno.

Difatti, se l’estensione territoriale di una denominazione è contenuta, risulta più facile coglierne gli aspetti comuni di fondo, anche grazie ai relativi disciplinari (i quali, peraltro, limitano effettivamente le varietà ampelogratiche utilizzabili, le rese massime per ettaro e/o di trasformazione  dell’uva in mosto ovvero prevedono requisiti chimici ed analitici più rigorosi per il prodotto finale).

Decodificare il disciplinare?

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La tipicità non emerge tuttavia in modo sempre immediato dai dati tecnici contenuti nel disciplinare, ma è in un certo senso lì “criptata” loro tramite, almeno agli occhi di chi non è un esperto del settore.

Individuare la tipicità del vino di un determinato territorio, illustrandola in modo discorsivo, rappresenta allora semplicemente un altro modo di leggere il relativo disciplinare, consentendo di capire in modo colloquiale, ma preciso, a quale risultato (nella forma di “macro modello”) esso conduce.

Non esistendo però una versione “ufficiale” sulla descrizione della tipicità (gli unici dati vincolanti sono infatti quelli indicati nel disciplinare stesso), la “decodificazione” apre un certo spazio soggettivo a disposizione dell’interprete.

Ecco la questione delicata: la “vulgata” (e cioè la descrizione della tipicità in termini colloquiali) è sempre fedele? Susssite il rischio che la definizione stessa della tipicità possa dipendere dall’eloquenza e dall’abilità retorica dell’interprete che la comunica?

Sul piano giuridico, la situazione si risolve comunque con il lavoro professionale svolto dalle citate commissioni di valutazione:   se al loro assaggio un certo vino DOP è ritenuto idoneo, esso soddisfa i requisiti organolettici previsti dal disciplinare e, quindi, integra la relativa tipicità.

Qalora  “promosso” in sede di siffatto controllo (che avviene nel finale della fase produttiva), il vino può essere allora commercializzato spendendo legittimamente in etichetta il nome del relativo territorio, a cui lo specifico disciplinare si riferisce, unitamente alla sigla DOP (DOC-DOCG a seconda dei casi, in Italia).

Tale verifica avviene però solo a campione per i vini IGP/IGT (indicazione geografica protetta), la cui protezione spesso è riconducibile all’esigenza di salvaguardare la notorietà del relativo nome geografico (art.93, comma 1, lettera b, del Regolamento UE/1308/2013), il che di fatto avvicina alquanto tale situazione a quella delle DOP regionali (ferme le differenze esistenti sul piano giuridico, quanto a requisiti ed intensità dei controlli).

Tutto ciò è ancora attuale?

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Quanto esposto riflette l’approccio tradizionale al tema della denominazioni di origine, di cui la tipicità rappresenta un aspetto fondamentale.

Recenti riflessioni mettono però in dubbio le fondamenta di tutto il discorso, come si evice dalla posizone assunta da Attilio Scienza, attuale presidente del Comitato vini DOC.

A suo parere (questi i punti a nosto parere maggiormente salieti del discorso, il cui riassunto più esteso è reperibile a questo link, da cui è tratto quanto qui riportiamo):

“La grande reputazione nell’antica Grecia del vino della Tracia, conosciuto come il vino di Dioniso non era legata alla vocazione per la viticoltura di quel territorio, peraltro freddo, ma ai commerci di ambra e stagno sicuramente più importanti del vino ed a un popolo di commercianti navigatori, i Focesi, che organizzavano anche la comunicazione di questo vino. … 

… In passato un vino non era famoso per le sue caratteristiche organolettiche interessanti, ma per la possibilità di essere venduto. Non a caso le grandi denominazioni nascono dove ci sono strade e porti, non per la bontà del suolo, del clima o per la capacità del produttore.

Questa è l’ambiguità del terroir di cui siamo ancora vittime – ha proseguito Scienza – nessuna denominazione attuale, né nostra né francese ha questi elementi ...

… Oggi una Doc è mito o realtà ? Da qui dobbiamo partire per capire cosa significa oggi la vocazione. La qualità si può fare dappertutto, è diventato un prerequisito. L’eccellenza, che vuol dire “spingere fuori”, è a latere della qualità data dal terroir e si sostanzia nei valori etici ed estetici, nel valore/onestà di chi produce e nella capacità di capirlo da parte di chi consuma.

Questo rappresenta il salto di qualità che dobbiamo dare ai contenuti di un terroir.

Le strategie per tornare ai valori orginari della vocazione del terroir sono l’autenticità, intesa come capacità di interpretare il territorio con un vino, e non è facile per nessuno.

In passato i terroir avevano un solo vino e così dovrebbe tornare ad essere: fare un solo vino e farlo bene. Oggi ci sono doc in cui si fanno 10-20 vini: solo uno è autentico gli altri servono ad allargare l’offerta per coprire tutte le occasioni di consumo. …

 

Qualche considerazione “a caldo”

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Quanto osserva Attilio Scienza rappresenta uno spunto di riflessione tanto  interessante quanto onesto , ma costituisce altresì un inquietante indizio che tutti i discorsi “filosofici” sulla tipicità dei vini e sulla loro qualità legata al territorio, che costituisce la loro denominazione protetta, siano oggi in realtà piuttosto vuoti nella loro sostanza.

Come dice Attilio Scienza, se la qualità “si può fare dappertutto” e se quelle “data dal terroir si sostanzia nei valori etici ed estetici”, cosa differenzia allora un vino a denominazione (che rispetti tali criteri) con quello prodotto da una cantina che rispetta rigorosi parametri ESG (che non sono quelli attualmente previsti dal disciplinare italiano sulla sostenibilità, vista la debolezza dei criteri relativi agli aspetti sociali e di governance)?

Ancora: è allora più corretto l’approccio seguito negli Stati Uniti (modificato   solo per effetto di un apposito accordo internazionale con l’Unione Europea), secondo cui le denominazioni vanno protette solo quanto sia in concreto appurata la conoscenza della loro notorietà in capo ai consumatori?

Infine: la protezione alle denominazioni di origine va quindi riconosciuta solo ai territori che effettivamente rispettano rigorosi ciriteri etici, da un canto, e tutelano in modo scrupoloso il territorio, dall’altro?

Quale sorte va allora riservata ai territori ove la biodiversità è stata seriamente pregiudicata?

 

 

 

usi civici fondi agricoli

Gli usi civici sui fondi agricoli rappresentano limiti al diritto di proprietà sui fondi agricoli e vanno adeguatamente acceratati prima di procedere alla compravendita (usi civici fondi agricoli)


Cosa sono gli usi civici

Per uso civico si intende un diritto perpetuo attribuito ai membri di una determinata collettività (un comune o un’associazione), consistente nel godimento, in modo indiviso, di fondi appartenenti al demanio o, altresì, a un privato (usi civici fondi agricoli).

Il diritto di esercizio degli usi civici è imprescrittibile e, di conseguenza, non si può estinguere per usucapione. Solitamente trova il suo riconoscimento in una fonte – fatto, la quale si identifica con azioni e comportamenti che l’ordinamento ritiene idonei alla produzione di norme giuridiche.

Al fine di addentrarci più approfonditamente nel concetto di uso civico, è indispensabile qualche breve cenno storico. Innanzitutto, la sua origine può essere fatta risalire al Medioevo, quando il sovrano concedeva al feudatario l’amministrazione del feudo ed il solo godimento dei beni concessigli, restando esclusa, tuttavia, la disponibilità di tali beni; infatti, ad esempio, l’alienazione del feudo restava prerogativa del monarca. All’incirca verso la metà del XVII secolo, si assistette a un decadimento degli usi civici, tuttavia i beneficiari si spesero in aspre lotte per conservare i loro diritti, i quali, in effetti, hanno resistito al trascorrere dei secoli.

Gli usi civici oggi

Oggi, sebbene sia ormai ampiamente superata la concezione su cui un tempo l’uso civico si fondava, secondo cui si poteva provvedere al proprio sostentamento avvalendosi del diritto di cogliere del legname o di condurre al pascolo i propri animali sui fondi gravati da tale diritto, le destinazioni d’uso sono rimaste quelle previste dalla Legge 16 giugno 1927, n.1766.

L’art.11 di detta legge distingue in due tipologie i terreni oggetto di usi civici: i terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente (categoria A); i terreni convenientemente utilizzabili per la coltura agraria (categoria B).

Seppur l’uso civico spetti ad una determinata collettività, l’assegnazione dei terreni gravati da tale diritto è operata effettuando un bilanciamento tra i bisogni della popolazione con quelli della conservazione del patrimonio boschivo e pascolivo ed è attuata, come prescritto dagli artt. 19 e 20, a titolo di enfiteusi, diritto reale secondo il quale il titolare gode del dominio utile sul fondo, assumendosi l’obbligo di apportare migliorie e di corrispondere un canone annuo al proprietario.

Il canone è definito sulla base del prezzo dell’unità fondiaria, “realizzabile in libera contrattazione, tenuto conto dei vincoli giuridici apposti all’assegnazione e del precedente diritto dell’assegnatario”.

La liquidazione degli usi civici è affidata, ai sensi dell’art.27 e seguenti, ai commissari regionali degli usi civici. Costoro, dotati di funzioni giurisdizionali e amministrative, sono nominati dal Consiglio superiore della magistratura fra i magistrati di grado non inferiore a consigliere di Corte d’appello.

Contro le loro decisioni è ammesso reclamo alla Corte d’appello di Roma.

I commissari sono chiamati a decidere su tutte le controversie circa l’esistenza, la natura e la estensione dei diritti suddetti. Infatti, “sussiste la giurisdizione del Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici ogni volta in cui oggetto della domanda principale sia l’accertamento della demanialità civica del bene, e le altre domande connesse siano conseguenza di tale accertamento.”(Corte di Cassazione, ordinanza n. 15530 del 16/05/2022).

Guardando alla normativa meno risalente, con la Legge 431/1985 gli usi civici sono stati inseriti nell’elenco dei beni sottoposti a tutela ambientale.

Ciò si caratterizza per essere una situazione giuridica di sostanziale non modificabilità dei luoghi, la quale sfocia in una serie di limitazioni sulle facoltà dei proprietari, possessori e/o detentori di tali beni.

È, dunque, possibile affermare che oggi l’uso civico si pone a difesa di un interesse generale di natura ambientale, il quale va oltre quello di sussistenza di una certa comunità che originariamente era riconosciuto. Si veda anche sul punto la pronuncia del T.A.R. Trento, (Trentino-Alto Adige) sez. I, con la sentenza 26/11/2021, n.187.

Trasferimenti della proprietà su fondi gravati da usi civici

Occupiamoci, ora, dell’alienazione di fondi su cui gravano degli usi civici. A tal proposito, è d’uopo distinguere tra terreni di proprietà privata e quelli che, diversamente, fanno parte del demanio civico.

Nel primo caso, il fondo può essere oggetto di compravendita, tuttavia questa non comporta l’estinzione dell’uso civico, il quale si mantiene.

Secondo il Procuratore Generale presso la Cassazione (Udienza del 3 aprile 2023, Ricorsi R.G. 18257/17 e 27601/17) a meno di specifiche ipotesi previste dalla legge, i diritti di uso civico gravanti su beni collettivi non possono essere posti nel nulla da un decreto di espropriazione per pubblica utilità.

La natura demaniale degli usi civici (o lato sensu demaniale) lo impedisce, imponendo un formale provvedimento di sdemanializzazione, la cui mancanza rende invalido il decreto di espropriazione per pubblica utilità che preveda l’estinzione di eventuali usi civici di questo tipo con trasferimento dei relativi diritti sull’indennità di espropriazione.

Si attende che la Suprema Corte si pronunci sul caso a Sezioni Unite.

Nondimeno, è ammesso che si liberi il terreno privato dall’uso civico prima di effettuare la vendita, mediante la procedura di affrancazione del fondo.

Questa consiste nella liquidazione monetaria dell’uso civico, operata la quale il fondo può essere alienato libero dal suddetto vincolo. Come si preannunciava, se questa, invece, non viene eseguita, il bene può essere trasferito, tuttavia resta gravato dall’uso civico secondo il principio “res transit cum onere suo” (il bene si trasferisce con il suo onere). Inoltre, la sua sussistenza deve essere precisata all’interno dell’atto notarile.

I fondi di proprietà collettiva (demanio civico) destinati a finalità agricole, come anticipato, sono sovente affidati a singoli membri della comunità esercente il diritto, i quali possono avvantaggiarsene a titolo di enfiteusi. In tal caso, i beneficiari hanno la possibilità di rendersi legittimi proprietari del terreno aderendo a particolari procedure che consentono loro di alienare e riscattare le quote enfiteutiche.

La legittimazione viene attestata avviando un procedimento che esordisce con una perizia istruttoria pubblicata, previo riscontro del Commissario per gli usi civici (di cui si è già detto più sopra), nell’albo del Comune. A seguito dell’emissione dell’ordinanza di legittimazione, il provvedimento necessita dell’approvazione del Ministero della Giustizia, sentita la Regione.

Una parte della giurisprudenza sostiene che il provvedimento di legittimazione sia idoneo a far decadere il vincolo di inalienabilità del terreno il quale, conseguentemente, diventa commerciabile.

Accertamento dell’esistenza di usi civici prima di trasferire la proprietà su fondi agricoli

Passando oltre, una menzione merita la competenza professionale del notaio in relazione agli usi civici. Essa consiste nel dovere di consiglio e di segnalazione alle parti delle ragioni che potrebbero incidere negativamente sugli effetti degli atti stipulati e sul risultato pratico perseguito dalle parti con detti atti, nell’ipotesi di immobili gravati da uso civico.

Pertanto, “viola il dovere di diligenza professionale, e incorre nella conseguente responsabilità, il notaio che, esercitando le proprie funzioni in zona che presenti potenziale rischio di sussistenza di vincoli pubblici, non abbia provveduto a svolgere indagini più approfondite rispetto a quelle ordinarie di consultazione dei registri immobiliari e catastali, onde accertare l’effettiva libertà degli immobili oggetto degli atti rogati da usi civici che ne determinano la sostanziale incommerciabilità” (Cassazione civile sez. III, 18/10/2022, n.30494).

Volgiamo, da ultimo, un ulteriore sguardo su alcune pronunce giurisprudenziali in materia di usi civici (usi civici fondi agricoli).

Ad esempio, ci si potrebbe domandare: il bene su cui verte un uso civico può essere oggetto di pignoramento?

La sentenza Cassazione civile sez. II, 23/11/2022, n.34476 ha chiarito che l’uso civico non sottrae il bene dal pignoramento se il debitore stesso utilizza il bene in modo incompatibile con l’esercizio collettivo. Il singolo, infatti, non può trincerarsi dietro la sussistenza di un uso civico per evitare il pignoramento su un bene che egli stesso utilizza in modo incompatibile con l’esercizio collettivo. Dunque, in quest’ultimo elemento si cristallizza la pignorabilità di detto bene.

Affitto fondi agricoli su cui gravano usi civici

Un altro quesito che potrebbe venire in rilievo: si possono concedere in affitto beni in uso civico?

La Cassazione civile sez. III, con la sentenza 21/10/2021, n.29344 ha risposto positivamente, a condizione che non ne sia alterata la qualità originaria.

Infatti, la concessione in godimento a privati attraverso un contratto di locazione di fondi interessati da un uso civico è ammissibile purché la destinazione concreta, impressa al bene, sia compatibile con l’esercizio del predetto uso e la stessa sia temporanea e tale da non comportare l’alterazione della qualità originaria del bene. In mancanza di tali requisiti il contratto di locazione è nullo per contrasto con la norma imperativa.

In conclusione, è possibile osservare come l’istituto degli usi civici, seppur derivante da una normativa risalente nel tempo ed apparentemente non più attuale, continua comunque oggi a mantenere una considerevole rilevanza applicativa, che comporta la necessità di un attento esame e di opportune indagini dirette ad accertarne la sussistenza, soprattutto ogni qualvolta si debba procedere con atti di alienazione.

(a cura della dott.ssa Gerarda Monaco)

Biagio Fabrizio Carillo

 

Biagio Fabrizio Carillo

Biagio Fabrizio Carillo

 

già Colonnello dei Carabinieri.

Criminologo.

Ha ricoperto nella sua lunga carriera numerosi incarichi di comando.

Ultimo incarico Comandante del Nas di Alessandria con competenza sulle province di Alessandria, Asti e Cuneo.

Laureato in Giurisprudenza e in Scienze strategiche presso Università degli studi di Torino.

È autore di numerosi saggi, pubblicazioni e articoli divulgativi sui temi della criminologia investigativa e in campo agroalimentare.

Consulente nel settore anche vitivinicolo della Confederazione italiana agricoltori di Asti e della Confartigianato imprese Cuneo.

Membro esterno dell’organismo di vigilanza della Banca Alpi Marittime in materia di responsabilità amministrativa delle imprese  (di cui al d. lsg. 231/2001)

 

Partnerships

Le partnerships: la nostra modalità per concretizzare il connubio tra interdisciplinarietà e specializzazione, il nostro punto di forza per la consulenza sul diritto vitivinicolo e per l’assistenza delle imprese agricole ed agroalimentari.


 

Biagio Fabrizio Carillo

Biagio Fabrizio Carillo

 

già Colonnello dei Carabinieri.

Criminologo.

Consulente nel settore anche vitivinicolo della Confederazione italiana agricoltori di Asti e della Confartigianato imprese Cuneo.

Membro esterno dell’organismo di vigilanza della Banca Alpi Marittime in materia di responsabilità amministrativa delle imprese (di cui al d. lsg. 231/2001)

 



Partecipazione in CEDISA

Centro Studi sul Diritto e le Scienze dell'Agricoltura, alimentazione e ambiente




Ascheri Academy



 

Sostenibilità Circolarità Vitivinicolo Alimentare

Una panoramica sulle principali questioni legali in tema di sostenibilità e circolarità in campo alimentare e vitivinicolo


Tre incontri di approfondimento (Sostenibilità Circolarità  Vitivinicolo Alimentare): ecco il  nostro nuovo master breve, organizzato da Ascheri Academy con il patrocinio dell’Ordine degli Avvocati di Reggio Emilia nel maggio 2023.

Analizziamo, fra l’altro, i disciplinari volontari e quello ministeriale per la sostenibilità della filiera vitivinicola.


Aspetti generali in tema di circolarità e sostenibilità

 


Analisi della sostenibilità in campo alimentare e vitivinicolo

 


Greenwashing ” e suo contrasto.


Circa il tema dell’uso di nuove varietà vegetali e, in particolare, nuovi incroci ibridi, rimandiamo invece alla relativa pagina del nostro sito.


Criteri ESG: una chance di proteggere il pianeta Terra

 

Sostenibilità e circolarità delle attività economiche rappresentano un obiettivo oramai imprescindibile per la salvaguadia del nostro pianeta, ove sembra che sia ormai molto prossimo il superamento dell’aumento di temperatura di 1,5 gradi (BBC news, 17 maggio 2023):

Sostenibilità Circolarità Vitivinicolo Alimentare

Tuttavia, appare sconcertante che negli Stati Uniti le stesse istituzioni governative ormai “boiccottano” le imprese che valorizzano il rispetto dei criteri ESG, nel momento in cui decidere dove orientare i propri investimenti (così riferisce la BBC, 17 maggio 2023).

Boicottaggio riconducibile peraltro a questioni prettamente di politica interna, se non addirittura di natura elettorale:

“… dozens of (U.S.) States are considering proposals aimed at stopping government from doing business with financial firms that consider environmental, social and governance factors when making investments – moves that had cost one of the major targets of the campaign, BlackRock, more than $4bn in customer funds as of January”.

 

 

Ibridi incroci varietali vinificazione

Limiti legali all’uso di incroci / ibridi varietali nella vinificazione (ibridi incroci varietali vinificazione)


Secondo la legislazione europea (art.81 del Regolamento UE/1308/2013), compete agli Stati membri determinare quali sono le varietà di uve da vino (e cioè i vitigni le cui cui bacche sono ammesse alla vinificazione a fini commerciali), a condizione però che esse appartengano alla specie Vitis vinifera o provengano da un incrocio tra la specie Vitis vinifera e altre specie del genere Vitis (ibridi incroci varietali vinificazione), fermo poi il divieto all’uso delle varietà Noah, Othello, Isabelle, Jacquez, Clinton e Herbemont.

Con la riforma della PAC 2023/2027 è stato peraltro rimosso il divieto di utilizzare i suddetti incroci per la produzione dei vini DOP e IGP (art.93 di detto regolamento UE), che in precedenza consentiva invece l’impiego delle sole varietà del genere Vitis vinifera.

In Italia la competenza in questione spetta alle Regioni, alla luce dell’accordo concluso tra le medesime e lo Stato il 25 luglio 2002. Di conseguenza, ciascuna Regione procede ad individuare quali sono le varietà di uve da vino coltivabili sul proprio territorio, nel rispetto dei limiti unionali sopra indicati.

Ovviamente, per quanto riguarda le singole denominazioni di origine e indicazioni geografiche, è alla fine il relativo disciplinare a determinare la specifica base ampelografica dei rispettivi vini, purché nell’ambito dei limiti unionali e regionali.

Breeding: tecniche genetiche per realizzare incroci – ibridi e disciplina degli OGM

In tale contesto normativo, vi è dunque ampio spazio per il ricorso agli incroci (“breeding”), i quali possono presentare qualità di resistenza – sia agli agenti patogeni che alle avversità climatiche, prima fra tutte la siccità – superiori rispetto alle qualità da cui derivano e, se adeguatamente selezionati, produrre frutti con valide caratteristiche qualitative.

Il modo tradizionale per ottenere gli incroci è quello discendente dalla ibridazione naturale, e cioè attraverso tecniche botaniche che – usando i sistemi riproduttivi esistenti in natura – consentono di ottenere un nuovo vegetale, ove alcune caratteristiche genetiche sono variate rispetto a quelle delle piante da cui esso è originato.

Esempi famosi sono il Bianco Manzoni (incrocio tra il Riesling renano e Pinot bianco) e il Muller Thurgau (incrocio tra Riesling renano e Madeleine Royale). I tempi medi di realizzazione variano tra i 15 ed i 25 anni.

L’ibridazione naturale ha così condotto alla creazione dei cosiddetti PIWI, il quale  è un acronimo che viene dal tedesco “pilzwiderstandfähig”, significante  “viti resistenti ai funghi”.

La scienza moderna ha però capito come ottenere mutamenti genetici nelle piante anche mediante altre metodologie (ibridi incroci varietali vinificazione) .

Negli anni ‘90 si è iniziato a parlare di OGM (organismi genericamente modificati), ove particolari tecniche permettono di creare nuovi individui (piante o animali) con un patrimonio genetico variato, frutto dell’inserzione – tendenzialmente casuale quanto alla sua “localizzazione” nel genoma – di elementi esogeni nel loro DNA, cosa non possibile in natura.

Al contrario degli Stati Uniti, nel disciplinare la loro introduzione in natura, l’Unione Europea ha assunto un atteggiamento ispirato al criterio di precauzione, secondo cui ciò può avvenire solo dopo un’attenta ed approfondita valutazione dei rischi possibili per l’ambiente e la salute (Direttiva CE/18/2001, art.4).

In particolare, detta direttiva definisce in modo molto ampio un OGM, intendendo per tale “un organismo, diverso da un essere umano, il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto avviene in natura con l’accoppiamento e/o la ricombinazione genetica naturale”.

Inoltre, è completamente vietato l’uso di OGM nella produzione biologica (Regolamento UE/848/2018, art.5).

Le varietà vegetali ottenute con le tecniche Crispr/Cas9 sono considerate OGM.

A parte le guerre commerciali con gli Stati Uniti, nei venti anni successivi sono sostanzialmente avvenute due cose.

In primo luogo, la crisi climatica è purtroppo divenuta a tutti notoria ed ha accelerato il suo corso.

In secondo luogo, ad opera di Emmanuelle Charpentier e Jennifer A. Doudna (insignite del Premio Nobel per la chimica nell’anno 2020) è stata scoperta la cosiddetta “forbice molecolare”, un rivoluzionario metodo di editing del genoma (Crispr/Cas9), che consente di modificare il DNA di piante ed animali in modo preciso e specifico.

In buona sostanza, il ricorso alla tecnica Crispr/Cas9 porta a risultati alquanto analoghi a quanto avviene in natura (ma in tempi molto più brevi, circa 3 anni attualmente), nel momento in cui nel genoma di una pianta si inserisce quello di una specie affine, ottenendo così un fenomeno di cisgenesi e non di trangenesi.

Vista però la definizione molto ampia di OGM adottata nel 2001 dalla legislazione comunitaria, la Corte di Giustizia ha correttamente ritenuto (sentenza del 25 luglio 2018, causa C-528/2016) che sono da considerarsi tali anche gli ibridi di vite ottenuti tramite il ricorso alla tecnica Crispr/Cas9. Di conseguenza, il loro inserimento in natura è soggetto alle medesime cautele che a suo tempo sono state volute per il mais trasgenetico.

Il che conseguentemente implica forti limiti all’uso degli ibridi di vite – ottenuti tramite il ricorso alla tecnica Crispr/Cas9 – per la vinificazione, quand’anche gli Stati membri intendessero inserirli nell’elenco delle uve da vino consentite.

Così infatti ha sancito la Corte:

51   … l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/18, in combinato disposto con l’allegato I B, punto 1, a quest’ultima, non può essere interpretato nel senso di escludere dall’ambito di applicazione di tale direttiva organismi ottenuti mediante nuove tecniche o nuovi metodi di mutagenesi, che sono emersi o si sono principalmente sviluppati dopo l’adozione della direttiva in parola. Infatti, un’interpretazione del genere porterebbe a disconoscere l’intenzione del legislatore dell’Unione, riflessa nel considerando 17 di tale direttiva, di escludere dal suo ambito di applicazione solo organismi ottenuti tramite tecniche o metodi utilizzati convenzionalmente in varie applicazioni con una lunga tradizione di sicurezza

52   Tale conclusione è rafforzata dall’obiettivo della direttiva 2001/18 che, come emerge dall’articolo 1 di quest’ultima, mira, conformemente al principio di precauzione, alla tutela della salute umana e dell’ambiente, da un lato, quando si immettono deliberatamente nell’ambiente OGM per uno scopo diverso dall’immissione in commercio all’interno dell’Unione e, dall’altro, quando si immettono in commercio all’interno dell’Unione OGM come prodotti o all’interno di prodotti.

53  Infatti, come previsto dall’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2001/18 spetta agli Stati membri, nel rispetto del principio di precauzione, provvedere affinché siano adottate tutte le misure atte ad evitare effetti negativi sulla salute umana e sull’ambiente che potrebbero derivare dall’emissione deliberata o dall’immissione in commercio di OGM. Ciò implica in particolare che una siffatta emissione deliberata o immissione sul mercato può avvenire solo al termine di procedure di valutazione dei rischi individuate rispettivamente nella parte B e nella parte C di tale direttiva. Orbene, com’è stato indicato al punto 48 della presente sentenza, i rischi per l’ambiente o la salute umana legati all’impiego di nuove tecniche o nuovi metodi di mutagenesi, ai quali fa riferimento il giudice del rinvio, potrebbero essere simili a quelli risultanti dalla produzione e dalla diffusione di OGM tramite transgenesi. Ne consegue che un’interpretazione della deroga contenuta all’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/18, in combinato disposto con l’allegato I B, punto 1, a quest’ultima, che escludesse dall’ambito di applicazione di tale direttiva gli organismi ottenuti mediante tecniche o metodi di mutagenesi, senza alcuna distinzione, pregiudicherebbe l’obiettivo di tutela perseguito dalla direttiva in parola e violerebbe il principio di precauzione che essa mira ad attuare.

La Corte ha poi precisato che analoghi limiti si pongono per inserire gli ibridi varietali ottenuti con la tecnica Crispr/Cas9 nel “catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole“, di cui alla direttiva CE/53/2002:

“67 Ne consegue che rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 4, paragrafo 4, della direttiva 2002/53, e degli obblighi in materia di tutela della salute e dell’ambiente che tale disposizione impone ai fini dell’ammissione delle varietà nel catalogo comune, le varietà geneticamente modificate ottenute mediante tecniche o metodi di mutagenesi come quelli di cui al procedimento principale, fatta eccezione per le varietà ottenute con tecniche o metodi di mutagenesi utilizzati convenzionalmente in varie applicazioni con una lunga tradizione di sicurezza.

68  Tenuto conto di tutto quanto precede, occorre rispondere alla seconda questione dichiarando che l’articolo 4, paragrafo 4, della direttiva 2002/53 deve essere interpretato nel senso che sono esentate dagli obblighi previsti da tale disposizione le varietà geneticamente modificate ottenute con tecniche o metodi di mutagenesi utilizzati convenzionalmente in varie applicazioni con una lunga tradizione di sicurezza”.

Insomma, in base a detta sentenza,  gli ibridi varietali ottenuti con la tecnica Crispr/Cas9 non vengono equiparati alle varietà geneticamente modificate ottenute con tecniche o metodi di mutagenesi utilizzati convenzionalmente con una lunga tradizione di sicurezza.

Gli ibridi – incroci ottenuti mediante mutagenesi in vitro possono – a determinate condizioni – non essere considerati OGM

Pende attualmente un nuovo ricorso in materia dinanzi alla Corte UE  (causa C-688/2021) – vertente sul regime giuridico degli ibridi ottenuti mediante mutazione casuale in vitro – ove il 27 ottobre 2022 l’Avvocato Generale M. Szpunar ha presentato le sue conclusioni, secondo cui:

“L’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 marzo 2001, sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati e che abroga la direttiva 90/220/CEE del Consiglio, in combinato disposto con l’allegato I B, punto 1, di tale direttiva e alla luce del considerando 17 della stessa, deve essere interpretato nel senso che  la mutagenesi casuale applicata in vitro rientra nell’allegato I B, punto 1, di detta direttiva”.

Per l’Avvocato Generale, quindi, gli ibridi ottenuti mediante mutazione casuale in vitro sarebbero da considerarsi tecniche o metodi di mutagenesi utilizzati convenzionalmentecon una lunga tradizione di sicurezza:

“64.      Dall’altra, conformemente alla sentenza Confédération paysanne e a., rientrano nell’allegato I B, punto 1, della direttiva 2001/18 gli organismi ottenuti mediante tecniche o metodi di mutagenesi utilizzati convenzionalmente in varie applicazioni, con una lunga tradizione di sicurezza, contrariamente alle tecniche che sono emerse o che si sono principalmente sviluppate successivamente all’adozione di detta direttiva.

65.      Orbene, in particolare dal parere del CS emerge che la mutagenesi casuale, tanto in vivo quanto in vitro, era utilizzata nella selezione di varietà vegetali ben prima del 2001 e il legislatore dell’Unione non poteva ignorarlo all’atto dell’adozione della direttiva 2001/18 (40). Inoltre, posto che i meccanismi e le tipologie di modificazioni genetiche indotte dalla mutagenesi casuale tanto in vivo quanto in vitro coincidono, queste due modalità di applicazione di detta tecnica non presentano alcuna differenza sotto il profilo della loro sicurezza, che ha una lunga tradizione, ai sensi della sentenza Confédération paysanne e a.”

Pronunciandosi su detto caso (C-688/2021), nella sentenza del 7 febbraio 2023 la Corte di Giustizia ha effettuato una limitata apertura in favore delle mutagenesi mediante culture in vitro (che, quando rispecchiamo le caratteristiche indicate dalla Corte, non rappresentano allora un OGM, la cui immissione nell’ambiete è soggetta alle procedure previste dalla relativa direttiva 2001/81/CE), sancendo:

l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/18, in combinato disposto con l’allegato I B, punto 1, della medesima direttiva e alla luce del considerando 17 della stessa, deve essere interpretato nel senso che gli organismi ottenuti mediante l’applicazione di una tecnica o di un metodo di mutagenesi fondati su modalità di modificazione, da parte dell’agente mutageno, del materiale genetico dell’organismo interessato che siano le stesse di una tecnica o di un metodo di mutagenesi utilizzati convenzionalmente in varie applicazioni con una lunga tradizione di sicurezza, ma che differiscono da tali seconda tecnica o secondo metodo di mutagenesi per altre caratteristiche, sono, in linea di principio, esclusi dalla deroga di cui alla disposizione in questione, a condizione che sia accertato che dette caratteristiche possono comportare modificazioni del materiale genetico dell’organismo di cui trattasi diverse, per la loro natura o per il ritmo con cui si verificano, da quelle risultanti dall’applicazione della suddetta seconda tecnica o del suddetto secondo metodo di mutagenesi. Tuttavia, gli effetti inerenti alle colture in vitro non giustificano, in quanto tali, che da tale deroga siano esclusi gli organismi ottenuti mediante l’applicazione in vitro di una tecnica o di un metodo di mutagenesi utilizzati convenzionalmente in varie applicazioni in vivo con una lunga tradizione di sicurezza relativa a tali applicazioni.

La futura disciplina dell’Unione Europea sulle varietà vegetali ottenute mediante nuove tecnologie genetiche

Attualmente, in relazione alle nuove tecniche genomiche, è allo studio un nuovo quadro giuridico da parte della Commissione UE, specificamente rivolto per le piante ottenute mediante mutagenesi e cisgenesi mirate e per gli alimenti e i mangimi da esse ottenuti.

 


La regolamentazione degli OGM nella UE


CREA - Consiglio per la Ricerca in Agricoltura


 

Biogas allevamento economia circolare

Produrre biogas dagli escrementi degli animali di un allevamento,  creando carburante per automobili (Biogas allevamento economia circolare)


Interessante ed innovativo esempio di economia circolare, realizzato da un’azienda agricola – quella di Nicoletta Cella, Agriturismo Bosco Gerolo Val Trebbia – in provincia di Piacenza (Biogas allevamento economia circolare).

Lo segnala Euronews durante le proprie trasmissioni del 5 ottobre 2022.

Video su Euronews

L’idea – già attuata e funzionante –  potrebbe rappresentare una modalità per rendere più sostenibili gli stessi allevamenti, cui si chiede di ridurre sensibilmente le emissioni di gas aventi “effetto serra”.

Cosa che attualmente viene invece interpreta come un obiettivo da raggiungere tramite il ridimensionamento degli allevamenti stessi (provocando forte opposizione da parte degli allevatori, come da poco accaduto nei Paesi Bassi).

Spiega Wikipedia che, “i biogas sono una miscela di vari tipi di gas, principalmente metano e anidride carbonica, prodotti dalla fermentazione batterica in anaerobiosi (assenza di ossigeno) di residui organici vegetali o animali.

I residui utili possono avere più origini: scarti dell’agroindustria (trinciato di mais, sorgo o altre colture), dell’industria alimentare (farine di scarto o prodotti scaduti), dell’industria zootecnica (reflui degli animali o carcasse); si possono utilizzare anche colture appositamente coltivate allo scopo di essere raccolte e trinciate per produrre “biomassa”, come mais, sorgo zuccherino, grano, canna comune, bietole.

L’intero processo vede la decomposizione del materiale organico da parte di alcuni tipi di batteri, con produzione di anidride carbonica, idrogeno e metano (metanizzazione dei composti organici)”.

Investire nelle terre di campagna è fondamentale, per la sostenibilità sia agricola che economica: in Cina sta tragicamente emergendo quanto è assurdo non farlo.

Piano strategico Italia PAC 2023-2027

Secondo la Commissione UE, è inadeguato il Piano strategico Italia PAC 2023-2027


Piano strategico Italia  PAC 2023-2027: ecco il giudizio critico espresso dalla Commissione UE  – Ares(2022)2416762 – 31/03/2022

“Il piano, nella sua forma attuale, non è sufficiente.

La Commissione osserva che numerosi elementi del piano, descritti nelle sezioni successive, sono mancanti, incompleti o incoerenti; non è pertanto possibile effettuare una valutazione approfondita della coerenza tra l’analisi SWOT, le esigenze individuate e la strategia, né dell’ambizione e dell’accettabilità del piano. In particolare, in assenza di target finali quantificati per gli indicatori di risultato, non è possibile valutare l’adeguatezza e il livello di ambizione della logica di intervento proposta per ciascun obiettivo specifico.

La Commissione sottolinea l’importanza dei target finali fissati per gli indicatori di risultato quale strumento chiave per valutare l’ambizione del piano e monitorarne i progressi.

Tali target finali devono essere precisi, tenere conto di tutti gli interventi pertinenti e definire un livello di ambizione adeguato in linea con le esigenze individuate.

Analogamente, le incoerenze nelle informazioni finanziarie (descrizione degli interventi e tabelle finanziarie) rendono particolarmente difficile valutare il rispetto dei massimali e delle dotazioni. L’Italia è invitata a compilare adeguatamente tutte le sezioni e gli elementi del piano vuoti o incompleti.

Le osservazioni che seguono si basano esclusivamente sul contenuto parziale disponibile”

Più nello specifico.

“La Commissione prende atto della decisione dell’Italia di trasferire il 2,8 % dei fondi per i pagamenti diretti allo sviluppo rurale e accoglie con favore gli sforzi tesi ad armonizzare gli interventi in tale ambito proponendo solo interventi nazionali, la maggior parte dei quali sarà attuata dalle regioni italiane tenendo conto delle specificità territoriali.

In diversi casi, tuttavia, il piano indica che gli elementi regionali relativi a tali interventi (comprese le condizioni di ammissibilità e gli impegni) saranno definiti dalle regioni, senza descrivere tali elementi. L’Italia è invitata a fornire tali informazioni, come specificato nelle sezioni successive del presente allegato.

Tenuto conto della diversità dell’agricoltura e delle zone rurali in Italia, del numero di potenziali beneficiari e delle limitate risorse finanziarie disponibili, l’Italia è invitata a migliorare la strategia proposta e la descrizione degli interventi garantendo una concentrazione e un targeting chiari e decisi del sostegno verso i territori, i beneficiari e i settori più bisognosi, sulla base dell’analisi SWOT e delle specifiche esigenze territoriali

Ecco il testo integrale del parere espresso dalla Commissione

Giudizio Commissione UE su piano strategico Italia per PAC 2023-2027

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Parimenti critico il giudizio espresso in proposito da numerose associazioni ambientaliste.