Pratiche sleali settore agricolo

Pratiche sleali settore agricolo: la direttiva dell’Unione Europea e la sua  attuazione in Italia.


La direttiva europea sulle pratiche sleali nei rapporti tra imprese della filiera agricola ed alimentare (direttiva UE/633/2019, applicabile ovviamente anche al settore vitivinicolo), prevede come termine di  recepimento da parte degli Stati membri la data del 10 maggio 2021 (pratiche sleali settore agricolo).

La direttiva (suo art.9) consente tuttavia agli Stati, al fine di garantire un più alto livello di tutela, di   “mantenere o introdurre norme nazionali volte a contrastare le pratiche commerciali sleali più rigorose di quelle previste nella presente direttiva“.

Essa inoltre “lascia impregiudicate le norme nazionali finalizzate a contrastare le pratiche commerciali sleali che non rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva“.

In entrambe i casi a condizione che le norme nazionali “siano compatibili con le norme relative al funzionamento del mercato interno”.


Per quanto concerne l’Italia, le pratiche sleali  nel settore agricolo erano già:

    • colpite dall’art.62 del decreto legge 24 gennaio 2012, n.1 (convertito), portante la Disciplina delle relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli e agroalimentari (ora abrogato dal  D. Lgs 8 novembre 2021, n.198, attuativo della Direttiva UE/633/2019, che ne riprende tuttavia il contenuto ampliandolo);
    • ulteriormente specificate (ai sensi del suo art. 11 bis) dal decreto ministeriale 19 ottobre 2012 e relativo allegato   (anche esso conseguentemente abrogato).

Necessariamente, la precedente normativa italiana (art.62 D.L. 1/2012 citato) concerneva solo le pratiche sleali relative a prodotti alimentari “la cui consegna avviene nel territorio della Repubblica italiana” (art.1 del menzionato decreto ministeriale).

Per contro, la direttiva colpisce le pratiche sleali “attuate da acquirenti che sono nello stesso Stato membro dell’acquirente o in uno Stato membro diverso da quello dell’acquirente, ma anche contro pratiche commerciali sleali attuate da acquirenti stabiliti al di fuori dell’Unione”  (considerando 12 ed articolo 1, comma 2).

La normativa italiana in questione resta quindi applicabile al settore agricolo, ma va adeguata (come specificamente dispone la legge comunitaria per gli anni 2019-2020) alle apposite disposizioni che la direttiva UE/633/2019 prevede per il settore agricolo.


La citata direttiva UE/633/2019  ha avuto una prima parziale attuazione in Italia, consistente nei provvedimenti adottati dal governo per fronteggiare le conseguenze economiche dell’epidemia Covid-19.

Mediante il decreto legge 9/2020 sono state comminate sanzioni a chi subordina l’ acquisto di prodotti agroalimentari a certificazioni non obbligatorie riferite al COVID-19, ne’ indicate in accordi di fornitura per la consegna dei prodotti su base regolare antecedenti agli accordi stessi.


Successivamente, per dare effettivamente completa attuazione alla direttiva stessa, mediante la legge comunitaria per l’anno 2019/2020  (art. 7 della legge 22 aprile 2021, n.53, adotatta con evidente ritardo, al punto che la Commissione ha aperto una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia), il Parlamento ha delegato il Governo a dettare le apposite norme in materia.

I criteri di delega, fissati per attuare la direttiva UE/633/2019, sono i seguenti:

a) adottare le occorrenti modificazioni e integrazioni alla normativa vigente in merito alla commercializzazione dei prodotti agricoli e alimentari, in particolare con riferimento all’articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, e all’articolo 78, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, del decreto-legge 17 marzo 2020, n.18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, razionalizzando e rafforzando il quadro giuridico esistente nella direzione di una maggiore tutela degli operatori delle filiere agricole e alimentari rispetto alla problematica delle pratiche sleali, ferma restando l’applicazione della disciplina a tutte le cessioni di prodotti agricoli e agroalimentari, indipendentemente dal fatturato aziendale;
b) mantenere e ulteriormente definire i principi generali di buone pratiche commerciali di trasparenza, buona fede, correttezza, proporzionalita’ e reciproca corrispettivita’ delle prestazioni a cui gli acquirenti di prodotti agricoli e alimentari debbano attenersi prima, durante e dopo l’instaurazione della relazione commerciale;
c) coordinare la normativa vigente in materia di termini di pagamento del corrispettivo, di cui all’articolo 62 del decreto-legge n. 1 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 27 del 2012, con le previsioni relative alla fatturazione elettronica;
d) prevedere che i contratti di cessione dei prodotti agricoli e alimentari, ad eccezione di quelli conclusi con il consumatore e delle cessioni con contestuale consegna e pagamento del prezzo pattuito, siano stipulati obbligatoriamente in forma scritta e prima della consegna;
e) salvaguardare la specificita’ dei rapporti intercorrenti tra imprenditore agricolo e cooperativa agricola di cui e’ socio per il prodotto conferito, avuto riguardo sia alla materia dei termini di pagamento sia alla forma scritta del contratto;
f) confermare che i principi della direttiva (UE) 2019/633, compreso il divieto previsto con riferimento ai termini di pagamento per i prodotti deperibili dall’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della medesima direttiva, si applicano anche alle pubbliche amministrazioni e che, in ogni caso, alle amministrazioni del settore scolastico e sanitario, quando debitrici in una transazione commerciale, seppur escluse dall’applicazione del citato articolo 3, paragrafo 1, lettera a), si applica quanto previsto dall’articolo 4, comma 4, del decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, ai sensi del quale nelle transazioni commerciali in cui il debitore e’ una pubblica amministrazione le parti possono pattuire, purche’ in modo espresso, un termine per il pagamento non superiore a sessanta giorni;
g) confermare che l’obbligo della forma scritta dei contratti di cessione dei prodotti agricoli e alimentari non possa essere assolto esclusivamente mediante forme equipollenti secondo le disposizioni vigenti, definendo in modo puntuale le condizioni di applicazione;
h) prevedere, ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva (UE) 2019/633, tra le pratiche commerciali sleali vietate le vendite dei prodotti agricoli e alimentari attraverso il ricorso a gare e aste elettroniche a doppio ribasso, nonche’ la vendita di prodotti agricoli e alimentari realizzata ad un livello tale che determini condizioni contrattuali eccessivamente gravose, ivi compresa quella di vendere a prezzi palesemente al di sotto dei costi di produzione, definendo in modo puntuale condizioni e ambiti di applicazione, nonche’ i limiti di utilizzabilita’ del commercio elettronico;
i) garantire la tutela dell’anonimato delle denunce relative alle pratiche sleali, che possono provenire da singoli operatori, da singole imprese o da associazioni e organismi di rappresentanza delle imprese della filiera agroalimentare;
l) prevedere la possibilita’ di ricorrere a meccanismi di  mediazione o di risoluzione alternativa delle controversie tra le parti, al fine di facilitare la risoluzione delle controversie senza dover forzatamente ricorrere ad una denuncia, ai sensi di quanto disposto dall’articolo 7 della direttiva (UE) 2019/633;
m) introdurre sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, secondo comma, della direttiva (UE) 2019/633, entro il limite massimo del 10 per cento del fatturato realizzato nell’ultimo esercizio precedente all’accertamento;
n) valorizzare il ruolo delle organizzazioni di rappresentanza nella presentazione delle denunce come previsto dall’articolo 5, paragrafo 2, della direttiva (UE) 2019/633, estendendolo alle organizzazioni di imprese rilevanti a livello nazionale;
o) adottare con rigore il principio della riservatezza nella denuncia all’autorita’ nazionale di un’eventuale pratica sleale, previsto dall’articolo 5 della direttiva (UE) 2019/633;
p) adottare le occorrenti modificazioni e integrazioni all’articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, al fine di designare l’Ispettorato centrale della tutela della qualita’ e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari (ICQRF) quale autorita’ nazionale di contrasto deputata all’attivita’ di vigilanza sull’applicazione delle disposizioni che disciplinano le relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli e alimentari, all’applicazione dei divieti stabiliti dalla direttiva (UE) 2019/633 e all’applicazione delle relative sanzioni, nel rispetto delle procedure di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689. A tal fine, l’Ispettorato puo’ avvalersi dell’Arma dei carabinieri, e in particolare del Comando per la tutela agroalimentare, oltre che della Guardia di finanza, fermo restando quanto previsto in ordine ai poteri di accertamento degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria dall’articolo 13 della citata legge n. 689 del 1981;
q) prevedere che la mancanza di almeno una delle condizioni richieste dall’articolo 168, paragrafo 4, del regolamento (UE) n.1308/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, costituisca in ogni caso una pratica commerciale sleale e, nel caso in cui sia fissato dall’acquirente un prezzo del 15 per cento inferiore ai costi medi di produzione risultanti dall’elaborazione dell’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare – ISMEA, questo sia considerato quale parametro di controllo per la sussistenza della pratica commerciale sleale;
r) prevedere la revisione del regolamento recante disciplina delle vendite sottocosto, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 aprile 2001, n. 218, al fine di consentire che la vendita sottocosto dei prodotti alimentari freschi e deperibili sia ammessa solo nel caso in cui si registri del prodotto invenduto a rischio di deperibilita’ o nel caso di operazioni commerciali programmate e concordate con il fornitore in forma scritta, salvo comunque il divieto di imporre unilateralmente al fornitore, in modo diretto o indiretto, la perdita o il costo della vendita sottocosto;
s) prevedere che siano fatte salve le condizioni contrattuali, comprese quelle relative ai prezzi, che siano definite nell’ambito di accordi quadro nazionali aventi ad oggetto la fornitura dei prodotti agricoli e alimentari stipulati dalle organizzazioni professionali maggiormente rappresentative a livello nazionale;
t) prevedere che all‘accertamento delle violazioni delle disposizioni in materia di pratiche commerciali sleali al di fuori delle previsioni di cui alla direttiva (UE) 2019/633 l’Autorita’ garante della concorrenza e del mercato provveda d’ufficio o su segnalazione delle organizzazioni professionali maggiormente rappresentative a livello nazionale, assicurando, in ogni caso, la legittimazione delle organizzazioni professionali ad agire in giudizio per la tutela degli interessi delle imprese rappresentate qualora siano state lese da pratiche commerciali sleali;
u) prevedere l’applicabilita’ della normativa risultante dall’esercizio della delega di cui al presente articolo a favore di tutti i fornitori di prodotti agricoli e alimentari operanti in Italia indipendentemente dal fatturato.

Il 30 luglio 2021 il Consiglio dei Ministri ha approvato lo schema per il decreto sulle pratiche sleali in agricoltura, poi tradottosi nel decreto legislativo 8 novembre 2021, n.198.

Decreto legislativo 8 novembre 2021, n.198

La nuova disciplina italiana (D. Lgs. 198/2021, art.1, comma 2) si applica a forniture effettuate da fornitori stabiliti in Italia, indipendentemente dal fatturato dei fornitori e degli acquirenti e qualunque sia la legge applicabile al contratto di cessione di prodotti agroalimentari.


Come denunciare a MIPAAF una pratica sleale


Tale disciplina va altresì coordinata con:




Pratiche sleali settore agricolo Covid-19

Pratiche sleali settore agricolo Covid-19: segnalabili al MIPAAF e sanzionate.


In parziale  attuazione alla direttiva UE/2019/633 , tra le misure adotta per contrastare gli effetti ecomomici dell’epidemia Covid-19, è stata inserita la norma (decreto legge 9/2020, art.33) che consente di perseguire le pratiche sleali settore agricolo, seppure solo quelle riconducibili a tale situazione sanitaria (Pratiche sleali settore agricolo Covid-19).

Così stabilisce detta norma:

“Art. 33 Misure per il settore agricolo
1. Al fine di assicurare la ripresa economica e produttiva alle imprese agricole ubicate nei comuni individuati nell’allegato n. 1 al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 1° marzo 2020, che abbiano subito danni diretti o indiretti, sono concessi mutui a tasso zero, della durata non superiore a quindici anni, finalizzati alla estinzione dei debiti bancari, in capo alle stesse, in essere al 31 gennaio 2020.
2. Per le finalita’ di cui al comma 1, e’ istituito nello stato di previsione del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali un fondo rotativo con una dotazione di 10 milioni di euro per l’anno 2020. Per la gestione del fondo rotativo il Ministero e’ autorizzato all’apertura di apposita contabilita’ speciale.
3. Entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, con decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, sono definiti i criteri e le modalita’ di concessione dei mutui.
4. Costituisce pratica commerciale sleale vietata nelle relazioni tra acquirenti e fornitori ai sensi della direttiva (UE) 2019/633 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 aprile 2019, la subordinazione di acquisto di prodotti agroalimentari a certificazioni non obbligatorie riferite al COVID-19 ne’ indicate in accordi di fornitura per la consegna dei prodotti su base regolare antecedenti agli accordi stessi.
5. Salvo che il fatto costituisca reato, il contraente, a eccezione del consumatore finale, che contravviene agli obblighi di cui al comma 4, e’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 15.000,00 a euro 60.000,00. La misura della sanzione e’ determinata facendo riferimento al beneficio ricevuto dal soggetto che non ha rispettato i divieti di cui al comma 4. L’Ispettorato centrale della tutela della qualita’ e della repressione delle frodi dei prodotti agroalimentari del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali e’ incaricato della vigilanza e dell’irrogazione delle relative sanzioni, ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689. All’accertamento delle medesime violazioni l’Ispettorato provvede d’ufficio o su segnalazione di qualunque soggetto interessato. Gli introiti derivanti dall’irrogazione delle sanzioni di cui al presente comma sono versati all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnati, con decreto del Ragioniere generale dello Stato, allo stato di previsione del Ministero per le politiche agricole alimentari e forestali per il finanziamento di iniziative per il superamento di emergenze e per il rafforzamento dei controlli.
6. Agli oneri derivanti dal comma 2, si provvede ai sensi dell’articolo 36″.

Per inviare le segnalazioni è stata aperta la casella di posta elettronica  pratichesleali@politicheagricole.it


contratto comodato agrario

IL CONTRATTO COMODATO AGRARIO


Il COMODATO (contratto comodato agrario), nella sua accezione più generica, è ”il contratto col quale una parte consegna all’altra una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta”. Questa è la definizione data al contratto di comodato dall’articolo 1803 del nostro codice civile. Nell’ambito del rapporto contrattuale in esame si individuano, quindi, due soggetti (o meglio, due parti contrattuali), che sono da un lato il proprietario del bene concesso in comodato, che viene definito COMODANTE, e dall’altro il soggetto che riceva il bene in comodato, definito COMODATARIO.

Il contratto di comodato è di regola gratuito, con la conseguenza che la sua causa va rinvenuta nello spirito di liberalità ed è basata proprio sul rapporto di fiducia tra le parti. Affinché detto contratto non perda la sua detta natura, l’interesse del comodante non deve avere contenuto o natura patrimoniale. Ciò non esclude tuttavia l’esistenza, in capo al comodante, di un interesse che può comunque consistere in mero vantaggio (diretto o indiretto) come quello della manutenzione o conservazione del bene (appunto non patrimoniale).

Sotto l’aspetto giuridico, il comodato è un contratto reale, ovvero che si perfeziona con la semplice consegna della cosa, e a forma libera, cioè che per il suo perfezionamento e la sua validità non è necessaria alcuna forma canonica. Ecco quindi che il contratto di comodato può essere correttamente stipulato anche con la sola forma verbale.

Quanto alla durata, il contratto di comodato può essere a tempo determinato (art.1803 c.c.), e quindi con scadenza convenuta tra espressamente le parti, oppure la durata può essere desunta e/o determinarsi in relazione all’uso e/o all’utilizzo che si può fare del bene, in conformità del contratto. L’art.1809 c.c. prevede infatti che “Il comodatario è obbligato a restituire la cosa alla scadenza del termine convenuto o, in mancanza di termine, quando se ne è servito in conformità del contratto.”.

Il comodato, diversamente, può essere stipulato anche per un tempo indeterminato. Si parla a tal proposito di comodato precario. L’art.1810 c.c. stabilisce che “Se non è stato convenuto un termine né questo risulta dall’uso a cui la cosa doveva essere destinata, il comodatario è tenuto a restituirla non appena il comodante la richiede.”. In tale caso, il comodante può in ogni momento domandare al comodatario la restituzione del bene.

OBBLIGHI E DIRITTI DEL COMODATARIO

Il comodatario è anzitutto tenuto a custodire e a conservare la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia. Egli non può servirsene che per l’uso determinato dal contratto o dalla natura della cosa. Inoltre, il comodatario non può concedere a un terzo il godimento della cosa senza il consenso del comodante. Se il comodatario non adempie gli obblighi suddetti, il comodante può chiedere l’immediata restituzione della cosa, oltre al risarcimento del danno (art.1804 c.c.).

Il comodatario non ha diritto al rimborso delle spese sostenute per servirsi della cosa. Tale principio trova giustificazione nel fatto che le spese sostenute dal comodatario per l’uso della cosa sono finalizzate proprio a servirsi del bene e quindi ad un suo interesse. Egli però ha diritto di essere rimborsato delle spese straordinarie sostenute per la conservazione della cosa, se queste erano necessarie e urgenti (art.1807 c.c.). Ciò poiché dette spese sono dirette alla conservazione duratura della cosa.

Il comodatario, infine, ha l’obbligo di restituire il bene alla scadenza del contratto (o a richiesta del comodante per il caso di comodato precario) ovvero quando si è servito del bene in conformità al contratto.


IL COMODATO IN AGRICOLTURA

Il contratto di comodato è una fattispecie molto diffusa in agricoltura, anche se poco garantista per il coltivatore che si trova ad assumere la posizione di comodatario (al contrario del contratto di affitto agrario).

Ecco perché si tratta di una tipologia contrattuale che viene maggiormente utilizzata per la concessione in godimento di fondi (o fabbricati) rustici tra soggetti legati da rapporti di parentela (o comunque di stretta amicizia e fiducia).

Risulta certamente lecito ed ammissibile concedere in comodato d’uso sia un fondo agricolo con annesso fabbricato rurale, sia le attrezzature necessarie alla coltivazione dei fondi (con la Circolare del 16 gennaio 2018 l’Agenzia delle Entrate ha riconosciuto i contratti di comodato stipulati verbalmente quali validi titoli di conduzione dei terreni agricoli per i quali può essere chiesto ed assegnato il carburante ad accisa agevolata).

Quanto alla sua forma, come il contratto di affitto agrario anche il contratto di comodato avente ad oggetto terreni agricoli non necessità della forma scritta. Ecco che, come è valido un contratto di affitto agrario verbale è da considerarsi valido titolo di conduzione dei terreni agricoli anche il contratto di comodato d’uso di fondi rustici stipulato nella forma verbale. Occorre però tenere ben a mente che il contratto di comodato di fondi rustici non può essere qualificato come “contratto agrario” (nei contratti agrari la causa, non presente nel comodato, è quella di costituire l’impresa agraria sul fondo altrui). Ragion per cui, in tema di rapporti agrari, la disposizione dell’art.27 della L.203/1982 – secondo cui le norme regolatrici dell’affitto di fondi rustici si applicano anche a tutti i contratti agrari – non trova applicazione nell’ipotesi di concessione in comodato di un fondo rustico (Cass. 2 agosto 2016, n.16105).

Il comodato di fondi rustici, inoltre, è soggetto a registrazione se viene redatto in forma scritta (in tal caso la registrazione deve essere effettuata entro 20 giorni dalla data dell’atto) oppure se stipulato in forma verbale ma dello stesso viene fatta menzione in un altro atto sottoposto a registrazione. Per cui se stipulato in forma orale e dello steso non vi è menzione in altri contratti registrati, non sarà necessario procedere a registrazione.

Da ultimo, occorre ricordare (anche se dovrebbe essere circostanza oramai notoria) che il contratto di comodato non riconosce al comodatario insediato sul fondo il diritto di prelazione agraria del conduttore coltivatore diretto. Ciò poiché la prelazione agraria viene riconosciuta solamente al coltivatore diretto munito di regolare contratto di affitto agrario. Al contempo, il diritto di prelazione del coltivatore diretto, proprietario del fondo confinante con quello posto in vendita, potrebbe essere escluso dalla presenza sul proprio fondo, di un soggetto comodatario. Circostanza, quest’ultima, che trova il suo fondamento nell’art.7 della Legge n.817 del 1971 il quale richiede, ai fini dell’esercizio del diritto di prelazione, che il confinante che intende esercitare detto diritto coltivi da almeno un biennio il suo fondo (adiacente a quello posto in vendita). Va da sé che la concessione in godimento del fondo mediante comodato d’uso escluderebbe la sussistenza del presupposto della conduzione/coltivazione (almeno) biennale del fondo confinante rispetto a quello oggetto di compravendita.


Modello contrartto comodato agrario


Comodato fondo agricolo modello

Modello per concedere in comodato l’uso di un fondo agricolo (comodato fondo agricolo modello)


CONTRATTO DI COMODATO

AVENTE AD OGGETTO TERRENI AGRICOLI

TRA

Il signor __________ (c.f. _________________), nato a __________ il ____________, residente in __________,Via ______________, nel prosieguo anche denominato “comodante

da una parte

E

Il signor __________ (c.f. _________________), nato a __________ il ____________, residente in __________,Via ______________, nel prosieguo anche denominato “comodatario

dall’altra parte

PREMESSO

  • che il signor ____________ è proprietario dei beni immobili siti nel Comune di _________ così censiti catastalmente: __________________________________________;
  • che il signor ____________ è intenzionato a concedere in godimento i predetti immobili e che il signor ___________ è al contempo interessato al godimento degli stessi;

 

Ciò premesso,

SI CONVIENE E SI STIPULA QUANTO SEGUE

Art. 1

Le premesse costituiscono parte integrante della presente convenzione;

Art. 2

La parte comodante concede in comodato d’uso al signor ___________________________, che accetta senza riserva alcuna per lo stesso titolo, gli appezzamenti di terreno/immobili di proprietà del comodante, identificati al Catasto Terreni del Comune di __________ al foglio n.___ particelle n.__________, di cui alle premesse, per una estensione complessiva di mq._________.

Art. 3

Il rapporto contrattuale avrà decorrenza dalla sottoscrizione del presente accordo e terminerà il ________, senza necessità di disdetta, già data ed accettata ora per allora. Le parti, nel caso in cui ritenessero rinnovare il presente accordo per un ulteriore egual periodo, dovranno predisporre nuovo contratto scritto.

Il Comodatario si impegna a rilasciare a scadenza il fondo concesso in comodato alla libera e piena disponibilità del Comodante, senza nulla avere a pretendere anche per frutti pendenti, per le coltivazioni in corso, ecc.

Il comodatario si impegna a custodire i beni con la diligenza di cui all’art.1804 c.c..

Fermo restando l’obbligo di conservare e custodire i fondi oggetto del presente comodato con cura e diligenza, i terreni dovranno essere restituiti al proprietario nello stato di fatto e diritto in cui sono stati consegnati. E’ fatto divieto per il Comodatario di concedere in godimento, anche temporaneamente, detti

beni a terzi, sia a titolo gratuito, sia a titolo oneroso.

(è anche possibile eventualmente inserire la seguente penale per ritardata restituzione)

Nell’ipotesi di ritardato rilascio dei beni concessi in comodato sarà dovuta dal comodatario ed in favore del comodante una penale giornaliera di euro __________ fermo restando il diritto al maggior danno patito.

Art. 4

Il rapporto che le parti intendono costituire con la sottoscrizione della presente ha carattere assolutamente precario in quanto nulla sarà dovuto al comodatario per la custodia e nulla sarà dovuto al comodante per il godimento.

Art. 5

Sono a carico del Comodatario le spese sostenute per la manutenzione ordinaria del fondo. Il Comodatario potrà effettuare sui terreni oggetto di comodato le normali e necessarie operazioni agricole secondo le regole della buona tecnica agraria.

Per i miglioramenti sussistenti al momento della restituzione dei fondi concessi in comodato non sarà riconosciuta a favore del Comodatario alcuna indennità, alla quale lo stesso Comodatario fin da ora, rinuncia.

Art. 6

L’inadempimento da parte del Comodatario ad uno qualsiasi dei patti contenuti nel presente contratto produrrà di diritto la risoluzione. Il Comodante non sarà da considerarsi responsabile dei danni a cose e/o a persone derivanti dall’attività svolta dal Comodatario.

Il Comodatario si intende soggetto, per ciò che lo riguarda, a tutte le leggi, regolamenti ed ordinamenti di igiene e polizia rurale e quindi si obbliga espressamente a lasciare indenne il Comodante concedente da ogni conseguenza per l’inosservanza di essi.

Art.7

Per quanto non espressamente previsto nella presente convenzione, le parti contraenti si danno reciprocamente atto che il presente contratto è regolato dalle norme sul comodato contenute nel codice civile (art. 1803 c.c. e seguenti), alle quali si fa integrale rimando.

Si specifica, pertanto, che avendo il presente comodato natura assolutamente precaria, e quindi gratuito, il Comodatario dichiara ad ogni effetto di legge di rinunciare sin d’ora ad avvalersi della facoltà prevista dall’art.27 della legge n.203 del 1982 (disciplina dell’affitto dei fondi rustici).

Art. 9

Qualunque modifica al presente contratto non può aver luogo, e non può essere provata, se non mediante atto scritto approvato e sottoscritto da entrambe le parti.

Art. 10

Le spese di registrazione del presente contratto sono a carico solidale delle parti.

Art. 11

Per ogni comunicazione e notificazione relativa al presente accordo ed ai rapporti da esso nascenti, le parti dichiarano di eleggere domicilio:

  • quanto al “Comodatario” presso la residenza come indicata in epigrafe (o specificare altro indirizzo);

  • quanto al “Comodante” presso la residenza come indicata in epigrafe (o specificare altro indirizzo).

Letto, approvato e sottoscritto.

Luogo, addì ______________

IL COMODANTE

IL COMODATARIO

__________________________ _________________________

Agli effetti degli artt. 1341 e 1342 c.c. le parti dichiarano di aver letto e di approvare tutti gli articoli del presente contratto ed in particolare gli artt. 3-4-5-6-7-8-9.

Luogo, addì ______________

IL COMODANTE

IL COMODATARIO

__________________________ _________________________

Accordi internazionali UE commercio vino

Commercio internazionale vino: gli accordi internazionali UE commercio vino


Il commercio internazionale vino è favorito da un complesso nonché sofisticato sistema di accordi internazionali conclusi dalla Unione Europea con altri paesi del mondo (accordi internazionali UE commercio vino), in modo tale da eliminare o almeno ridurre fortemente le barriere che altrimenti si oppongono agli scambi.

Diciamo subito che non si è affatto trattato di una liberalizzazione selvaggia, ma di un lungo lavoro per una condivisione delle regole in materia, che – per forza di cose – ha anche comportato qualche mediazione e qualche reciproca concessione in capo a tutte le parti.

Gli accordi internazionali sono stati conclusi nell’arco di circa quindici anni dalla Comunità con vari Stati terzi (fra cui Canada, Svizzera, Messico, Repubblica Sudafricana, Australia, Cile e Stati Uniti d’America: quanto pattuito tra la Comunità e gli USA è però considerato dagli stessi contraenti solo come un primo passo verso la definizione di un trattato di più ampio respiro) in materia di commercio del vino, senza mai proporsi di pregiudicare i diritti e gli obblighi delle parti derivanti dalla loro adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio: semmai l’idea è quella di darvi maggiore effettività.

Tali specifici trattati sono volti a disciplinare varie questioni cruciali per gli scambi commerciali di vino:

Da un canto, le tecniche di cantina rappresentano notoriamente le modalità con cui viene prodotto il vino, spesso comportanti l’utilizzo di additivi, talora suscettibili di lasciare residui nella bevanda finale (uno per tutti, l’anidride solforosa utilizzata come conservante). Inoltre, se la qualità di un vino discende soprattutto o, addirittura, unicamente dall’insieme dei trattamenti somministrati durante la sua lavorazione, al punto da fargli perdere o rendere molto labile il collegamento con le caratteristiche dell’uva pigiata, insorge il rischio per il consumatore di essere tratto in inganno sulle reali qualità del prodotto acquistato. La legislazione su tale materia persegue allora una duplice finalità: tutelare sia la salute, sia l’interesse economico del consumatore.

Disciplinare le regole sulle tecniche di cantina comporta fissare specifiche di produzione, foriere però di creare ostacolo agli scambi (rallentandoli con gravose incombenze burocratiche ovvero impedendoli) tra la Comunità e gli Stati terzi, qualora il paese importatore non riconosca o ponga limiti o ancor più non ammetta tout court il ricorso ad una determinata pratica, invece normalmente utilizzata nel paese ove un vino viene prodotto.

Dall’altro canto, se tra vari Stati sussistono differenze nel livello e nelle modalità di protezione per le denominazioni di origine, ciò può sensibilmente falsare la concorrenza tra i produttori siti nei differenti paesi. Difatti, se uno Stato non protegge adeguatamente le denominazioni riconducibili a territori esteri, i produttori nazionali riescono a produrre e commercializzare nel loro paese vini locali etichettandoli legalmente con nomi geografici esteri, in danno a chi vinifica nella località realmente corrispondente alla denominazione rispettando il relativo disciplinare.

E’ vero che, a livello internazionale, la tutela delle denominazioni di origine è più di recente stata disciplinata dagli accordi Trips (Trade – Related Aspects of Intellectual Property Rights), conclusi a Marrakesh il 15 aprile 1994 durante “l’Uruguay Round” del General Agreements on Trade and Tariffs (Gatt), attraverso i quali le tematiche inerenti i diritti della proprietà intellettuale – ivi inclusi quelli relativi alle indicazioni geografiche –  sono stati inseriti negli accordi inerenti l’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organisation – WTO), vincolanti per tutti i paesi ad essa aderenti.

E’ altresì vero che – con riferimento alla protezione delle indicazioni geografiche – i Trips recepiscono in verità molto più l’impostazione europea rispetto a quella accolta dagli altri paesi. Tuttavia, ciò è avvenuto soprattutto in linea teorica e con scarsa rilevanza pratica, a seguito della mancata esecuzione delle fasi attuative previste in detto accordo: cosa imputabile alla nota resistenza opposta dagli Stati Uniti d’America e dagli altri paesi di influenza anglosassone (fatta ovviamente eccezione per il Regno Unito, perchè al momento di concluderli esso faceva parte dell’Unione Europea). Questo dunque il nocciolo della questione.

Di recente, in materia di tutela delle denominazioni di origine, si sono aggiunti gli accordi con la Cina ed il Giappone.

D’altro canto ancora, anche a prescindere dalle delicate questioni riconducibili alla tutela delle denominazioni di origine, le regole sull’etichettatura – previste nell’interesse del consumatore – comportano a loro volta ulteriori ostacoli al commercio. Se esse non sono in qualche modo concordate, ogni Stato può opporsi al fatto che sul proprio territorio vengano immessi in commercio vini etichettati in modo diverso da quanto stabilito dalla rispettiva legislazione nazionale. Ciò comporta per i produttori esteri l’obbligo di adeguarsi, sostenendo ulteriori costi e difficoltà burocratiche.


Impatto economico accordi internazionali UE su commercio vino


Ecco spiegata la ragione dei trattati internazionali conclusi dalla Comunità sul commercio del vino (per una loro analisi approfondita, mi permetto di rinviare al mio lavoro pubblicato nel libro “Le indicazioni di qualità degli alimenti. Diritto internazionale e europeo”, Giuffrè, Milano, 2009).

A ben vedere, si tratta di un’ampia rete di relazioni internazionali, intessuta dalla Comunità, al fine di creare un contesto giuridico ove sono trattate nel modo più unitario possibile le soluzioni per le principali  problematiche che affliggono il commercio del vino, appena illustrate.

Nel valutare il risultato attualmente raggiunto va peraltro tenuto in debito conto che, a livello internazionale, è forse molto difficile pervenire ad una disciplina totalmente unitaria, viste le differenze esistenti tra i vari ordinamenti giuridici, a loro volta alimentate dalla circostanza che gli interessi economici sottostanti – conseguenti anche alla natura dimensionale dei produttori nei diversi paesi ed alla relativa disponibilità di risorse economiche – spesso divergono sensibilmente.

Così facendo, dal proprio punto di vista la Comunità ha in buona sostanza gradualmente realizzato un obiettivo – tutt’oggi in evoluzione – simile a quello conseguibile mediante un trattato multilaterale, ove peraltro spesso solo apparentemente si ha una disciplina uniforme, mentre in realtà la situazione risulta frammentata a causa delle varie deroghe e riserve spesso pattuite in simili accordi, capaci talora di minarne la loro stessa efficacia.

Un approccio dunque pragmatico, che consente peraltro di tutelare nello stesso modo all’estero sia le denominazioni d’origine sia le indicazioni geografiche comunitarie. Ciò verosimilmente evita alla radice l’insorgere di pericolose future falle nel loro sistema di protezione, magari scaturenti dalla circostanza che è la stessa Comunità a differenziare le prime dalle seconde, sì da ricollegare la tipicità dei prodotti contrassegnate da quest’ultime a presupposti un poco più lassi rispetto a quelli indicati negli accordi Trips, i quali paiono in realtà proteggere solo le denominazioni di origine in senso stretto.

Per quanto concerne le pratiche di cantina, sebbene sul piano della tecnica giuridica i trattati stipulati con i diversi Stati terzi operano con modalità differenti (essendo talora basati sul principio del mutuo riconoscimento delle rispettive legislazioni in materia, talora sull’individuazione delle singole tecniche reciprocamente consentite), il risultato tende sostanzialmente ad essere il medesimo: ciascun paese autorizza l’importazione ed il commercio sul proprio territorio dei vini prodotti su quello dell’altra parte, conformemente alle pratiche o trattamenti enologici concordate. L’aspetto più interessante è che – in via di massima – le pratiche autorizzate sono sempre le stesse, il che semplifica notevolmente il lavoro per i produttori. Permangono tuttavia alcune differenze (non proprie tutte le tecniche sono sempre reciprocamente ammesse ovvero possono variare le condizioni operative): ciò non permette allora di confidare che basti semplicemente la mera osservanza della normativa comunitaria interna per esportare ovunque il vino realizzato in conformità solo a quest’ultima.

Quanto concordato sulla protezione delle denominazioni di origine e sul riconoscimento delle tecniche di cantina, si riflette poi sull’etichettatura dei prodotti, facilitando così l’individuazione di regole condivise in materia, cui si accompagna spesso la creazione di appositi organismi o procedure di semplificazione amministrativa.

Vista la portata degli impegni assunti sul piano internazionale, è poi difficile pensare che essi non esplichino anche un effetto sulla stessa evoluzione del diritto comunitario interno in materia vitivinicola, lasciando quest’ultimo libero di svilupparsi del tutto autonomamente.

Inoltre, coerentemente con tale strategia di internazionalizzazione, l’Unione Europea partecipa come osservatore con statuto speciale (la Commissione aveva addirittura proposto la vera e propria adesione) ai lavori dell’Organizzazione Internazionale della Vite e del Vino (OIV), i cui principali compiti sono l’indicare ai suoi membri le misure atte a tener conto delle esigenze di tutti i soggetti coinvolti nel mondo vitivinicolo nonché il contribuire all’armonizzazione internazionale delle pratiche e delle norme esistenti in materia, unitamente all’elaborare nuovi criteri internazionali utili a migliorare le condizioni di produzione e commercializzazione dei prodotti in questione.

Peraltro, già a seguito della riforma dell’organizzazione comune di mercato vitivinicola, l’OIV ha aumentato considerevolmente la propria influenza sul diritto vitivinicolo comunitario, visto il ruolo ora attribuito sul piano normativo non solo più ai metodi di analisi, ma anche alle  raccomandazioni sulle pratiche di cantina elaborate dall’OIV stessa.

In primo luogo, esse sono ora divenute uno dei criteri cui deve attenersi la Commissione nell’esercitare il potere delegatole per elaborare norme regolamentari sulle tecniche di cantina: ciò si è poi concretizzato nel suo citato regolamento n.606/2009, che dell’OIV sostanzialmente recepisce il Codex enologico internazionale e la Raccolta dei metodi internazionali d’analisi dei vini e dei mosti. In secondo luogo, l’importazione di vini stranieri nel territorio comunitario viene subordinata al rispetto di dette raccomandazioni durante la loro lavorazione, a meno che venga diversamente disposto da appositi accordi internazionali conclusi dalla Comunità con il paese di provenienza del prodotto.


PER APPROFONDIRE: “Le pratiche enologiche e la tutela delle indicazioni di qualità nell’accordo UE/USA sul commercio del vino ed in altri trattati conclusi dalla Comunità” , in AA.VV., Le indicazioni di qualità degli alimenti – Diritto internazionale e europeo, Milano, 2009, p. 348.

etichettatura vino alimenti

Le regole per l’etichettaura del vino  e degli alimenti sono previste dal diritto comunitario (etichettatura vino alimenti)


Per evitare ostacoli al commercio dei prodotti alimentari e vinicoli, etichettatura vino alimenti è disciplinata dal diritto dell’Unione Europea.

Il testo base è costituito dal regolamento di Consiglio e Parlamento europeo UE/1169/2011.

Le norme ivi contenute si applicano a tutti i prodotti alimentari e – salve le deroghe espressamente previste dal regolamento stesso – anche ai prodotti vinicoli.

Fermo quanto sopra, per quanto concerne i vini  le specifiche norme sull’etichettatura sono contenute:

– nell’ordinamento dell’Unione Europea

– nell’ordinamento italiano

 

Per quanto concerne l’etichettatura dei vini varietali italiani, si deve quindi fare riferimento a detto DM MIPAAF 13 agosto 2012.

Si aggiungono poi le norme sull’etichettatura ambientale.


Sino al 2021, tra le deroghe più significative per l’etichettatura dei vini rispetto alla disciplina generale per gli alimenti, vi era quella che li esentava dall’indicare  sia gli ingredienti, sia il contenuto calorico.

Nel contesto della  riforma della PAC post-2020 (su cui l’accordo si è formato a fine giugno 2021) si è deciso come applicare anche ai vini le norme che impongono di indicare sia gli ingredienti, sia il contenuto calorico.

La nuova PAC post-2020 (2023-2007)

Le nuove norme sono portate dal Regolamento UE/2117/2021.

Per quanto concerne la revisione regime UE indicazioni geografiche nel settore vitivinicolo, rileva il comma 119 dell’art.1 di detto regolamento UE/2117/2021, che così modifica le pertinenti norme del regolamento UE/1308/2013 sulla OCM Unica

 

l’articolo 119 è così modificato:

a)

il paragrafo 1 è così modificato:

i)

la lettera a) è sostituita dalla seguente:

«a)

la designazione della categoria di prodotti vitivinicoli in conformità dell’allegato VII, parte II. Per le categorie di prodotti vitivinicoli di cui all’allegato VII, parte II, punto 1 e punti da 4 a 9, quando tali prodotti sono stati sottoposti a un trattamento di dealcolizzazione conformemente all’allegato VIII, parte I, sezione E, la designazione della categoria è accompagnata:

i)

dal termine “dealcolizzato” se il titolo alcolometrico effettivo del prodotto non è superiore a 0,5 % vol., o

ii)

dal termine “parzialmente dealcolizzato” se il titolo alcolometrico effettivo del prodotto è superiore a 0,5 % vol. ed è inferiore al titolo alcolometrico effettivo minimo della categoria che precede la dealcolizzazione.»;

ii)

sono aggiunte le lettere seguenti:

«h)

la dichiarazione nutrizionale ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera l), del regolamento (UE) n. 1169/2011;

i)

l‘elenco degli ingredienti ai sensi dell‘articolo 9, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 1169/2011;

j)

nel caso di prodotti vitivinicoli che sono stati sottoposti a un trattamento di dealcolizzazione conformemente all’allegato VIII, parte I, sezione E, e aventi un titolo alcolometrico volumico effettivo inferiore al 10 %, il termine minimo di conservazione a norma dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera f), del regolamento (UE) n. 1169/2011.»;

b)

il paragrafo 2 è sostituito dal seguente:

«2.   In deroga al paragrafo 1, lettera a), per i prodotti vitivinicoli diversi da quelli sottoposti a un trattamento di dealcolizzazione conformemente all’allegato VIII, parte I, sezione E, il riferimento alla categoria di prodotti vitivinicoli può essere omesso per i vini sulla cui etichetta figura il nome di una denominazione d’origine protetta o di un’indicazione geografica protetta.»;

c)

sono aggiunti i paragrafi seguenti:

«4.   In deroga al paragrafo 1, lettera h), la dichiarazione nutrizionale sull’ imballaggio o su un’etichetta a esso apposta può essere limitata al valore energetico, che può essere espresso mediante il simbolo “E” (energia). In tali casi, la dichiarazione nutrizionale completa è fornita per via elettronica mediante indicazione sull’imballaggio o su un’etichetta a esso apposta. Tale dichiarazione nutrizionale non figura insieme ad altre informazioni inserite a fini commerciali o di marketing e non vengono raccolti o tracciati dati degli utenti;

5.   In deroga al paragrafo 1, lettera i), l’elenco degli ingredienti può essere fornito per via elettronica mediante indicazione sull’ imballaggio o su un’etichetta a esso apposta. In tali casi, si applicano i requisiti seguenti:

a)

non sono raccolti o tracciati dati degli utenti;

b)

l’elenco degli ingredienti non figura insieme ad altre informazioni inserite a fini commerciali o di marketing; e

c)

l’indicazione delle informazioni di cui all’articolo 9, paragrafo 1, lettera c), del regolamento (UE) n. 1169/2011 figura direttamente sull’imballaggio o su un’etichetta a esso apposta.

L’indicazione di cui al primo comma, lettera c), del presente paragrafo comprende la parola “contiene” seguita dal nome della sostanza o del prodotto che figura nell’allegato II del regolamento (UE) n. 1169/2011.»;

Il regolamento UE/1169/2011 sull’etichettatura degli alimento porta (art.2, comma 2, lettera f) la seguente definizione di “ingrediente“:

«ingrediente» : qualunque sostanza o prodotto, compresi gli aromi, gli additivi e gli enzimi alimentari, e qualunque costituente di un ingrediente composto utilizzato nella fabbricazione o nella preparazione di un alimento e ancora presente nel prodotto finito, anche se sotto forma modificata;  i residui non sono considerati come ingredienti;

Quanto ai composti enologici, il Codice enologico europeo (Regolamento della Commissione 934/2019) distingue appositamente tra “additivi” e “coadiuvanti tecnologici” dei vini.

Vista la definizione di “ingrediente” portata dal citato regolamento 1169/2011 e tenuto conto che le nuove norme sull’indicazione degli ingredienti per i vini sembrano condurre a tale definizione, verosimilmente  dovranno figurare tra gli ingredienti dei vini gli “additivi“, con esclusione dei “composti enologici“, siccome questi ultimi tendono a lasciare semplicemente dei residui (se così non fosse, vanno invece indicati in etichetta).



L’etichettatura dei vini è però soggetta ad ulteriori disposizioni, specifiche invece per tale settore.

Tali apposite regole sono contenute nel regolamento di Consiglio e Commissione UE/1308/2013 (regolamento sulla OCM Unica, articoli  117 e seguenti) nonché nell’apposito regolamento attuativo della Commissione (regolamento UE/33/2019, art.40 e seguenti).

In virtù dei regolamenti sopra indicarti, etichettura vini alimenti subisce anche restrizioni significative, in quanto va realizzata senza usurpare o contraffare alcuna DOP o IGP.

Casi particolari diapplicazione di dette restrizioni sono:

In attuazione dei principi sull’etichettatura vini alimenti, la Commissione ha di recente emanato un regolamento, che dal 1 aprile 2020 impone di indicare in etichetta il paese di origine dell’ingrediente primario di un alimento, quando esso è diverso da quello del paese ove viene prodotto l’alimento finale etichettato.

Pratiche enologiche OIV

La Commissione ha pubblicato l’elenco delle Pratiche enologiche ammesse da OIV (Pratiche enologiche OIV)


Schede pratiche enologiche OIV (Organizzazione Internazionale della Vite e del Vino):   in adempimento a quanto previsto nel Codice enologico europeo, la Commissione ha pubblicato l’elenco delle pratiche di cantina ammesse da OIV (Organizzazione Internazionale della Vite e del Vino), giacché esse sono richiamate dalle stesse tabelle di detto Codice, che individuano le pratiche ed i composti enologici da esso autorizzati (tabelle 1 e 2, portate dall’allegato I al Codice stesso).

In adempimento a quanto previsto nel Codice enologico europeo,   la Commissione ha pubblicato l’elenco delle pratiche di cantina ammesse da OIV (Organizzazione Internazionale della Vite e del Vino), giacché esse sono richiamate dalle stesse tabelle di detto Codice, che individuano le pratiche ed i composti enologici da esso autorizzati (tabelle 1 e 2, portate dall’allegato I al Codice stesso: in entrambe, si veda la colonna n.3).

In effetti, in base a quanto sancito nella regolamento base sulla OCM Unica (regolamento di Consiglio e Parlamento Europeo UE/1308/2013, art.80, comma 5), la Commissione ha sì ricevuto la delega a disciplinare le pratiche di cantina ed i composti enologi, ma nel farlo essa deve adesso basarsi

“sui metodi pertinenti raccomandati e pubblicati dall’Organizzazione internazionale della vigna e del vino (OIV), a meno che tali metodi siano inefficaci o inadeguati per conseguire l’obiettivo perseguito dall’Unione”.

Circa i requisiti di purezza di additivi e coadivuanti per il vino, Il Codice enologico europeo (art.9) rinvia – per quanto non specificamente disciplinato dalla normativa comunitaria (costituita dal regolamento della Commissione UE/231/2012)  – al Codice enologico internazionale elaborato sempre da OIV.

La Commissione ha comunque evidenziato che – in caso di contrasto tra  quanto rispettivamente consentito dal Codice enologico europeo e quanto da OIV – prevalgono le disposizioni del primo.

Per quanto concerne gli enzimi (quelli autorizzati dal Codice enologico europeo, che costituiscono dei coadiuvanti tecnologici), sempre all’art.9 quest’ultimo stabilisce che:

 “gli enzimi e i preparati enzimatici utilizzati nelle pratiche e nei trattamenti enologici autorizzati elencati nell’allegato I, parte A, rispondono ai requisiti di cui al regolamento (CE) n. 1332/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio.


Il Codice enologico europeo è attualmente costituito dal regolamento della Commissione UE/934/2019, il quale indica quali sono le pratiche enologiche e quali gli ingredienti enologici autorizzati per la produzione di vino nell’Unione Europea.

Di conseguenza, nessun vino può essere legalmente commercializzato nell’Unione Europea, se prodotto utilizzando:

  • tecniche e/o ingredienti enologici diverse da quelle autorizzate dal Codice stesso (salve sperimentazioni nazionali, debitamente autorizzate seguendo le procedure previste dal Codice in questione)
  • tecniche e/o ingredienti enologici  autorizzati, ma violando i limiti eventualmente stabiliti dal Codice enologico per il loro utilizzo.

Per i vini importati da Stati terzi valgono i medesimi principi, a meno che non siano derogati da appositi accordi intrnazionali conclusi in materia dall’Unione Europea con lo Stato terzo produttore (si pensi a quello con gli Stati Uniti d’America, fatto nel 2006).


OIV - Nornativa tecnica


 

Indicazione origine provenienza ingrediente principale alimenti

Indicazione origine provenienza ingrediente principale alimenti:  obbligatoria dal 1 aprile 2020


Indicazione origine provenienza ingrediente principale alimenti:  il regolamento della Commissione UE/775/2018 impone che dal 1 aprile 2020 l’etichetta degli alimenti contenga l’indicazione del paese di provenienza dell’ingrediente principale, se tale paese è diverso da quello indicato come origine del prodotto alimentare che contiene detto ingrediente.

Si aggiunge così un tassello al quadro giuridico sull’etichettatura dei prodotti alimentari, costituito dal regolamento UE/1169/2011.

Il regolamento prevede diverse espressioni che, in tali circostanze,  potranno essere usate per indicare il paese di origine dell’ingrediente principale, e cioè:

a) con riferimento a una delle seguenti zone geografiche:

i) «UE», «non UE» o «UE e non UE»; o

ii) una regione o qualsiasi altra zona geografica all’interno di diversi Stati membri o di paesi terzi, se definita tale in forza del diritto internazionale pubblico o ben chiara per il consumatore medio normalmente informato; o

iii) la zona di pesca FAO, o il mare o il corpo idrico di acqua dolce se definiti tali in forza del diritto internazionale o ben chiari per il consumatore medio normalmente informato; o

iv) uno o più Stati membri o paesi terzi; o

v) una regione o qualsiasi altra zona geografica all’interno di uno Stato membro o di un paese terzo, ben chiara per il consumatore medio normalmente informato; o

vi) il paese d’origine o il luogo di provenienza, conformemente alle specifiche disposizioni dell’Unione applicabili agli ingredienti primari in quanto tali;

b) oppure attraverso una dicitura del seguente tenore:

«(nome dell’ingrediente primario) non proviene/non provengono da (paese d’origine o luogo di provenienza dell’alimento)» o una formulazione che possa avere lo stesso significato per il consumatore.

 

Tali espressioni – che non si appicano  ai prodotti DOP e IGP, siano essi alimenti o vini, ivi compresi quelli aromatizzati (vedasi l’art.1, comma 2, del regolamento in questione) – dovranno comparire nello stesso campo visivo dove è indicato il paese di provenienza del prodotto alimentare finale.

Esse dovranno inoltre venire scritte con caratteri aventi una dimensione specifica, che varia a seconda se il paese –  indicato come origine dell’alimento  finale – risulti da testo letterale ovvero in altro modo (quali immagini, …)

Trattasi dunque di un primo passo, mediante il quale si dovrà specificare – ad esempio –  se la pasta (alimento finale) italiana venga prodotta con grano (ingrediente principale) parimenti italiano oppure proveniente da altro luogo (nel qual caso, quest’ultimo dovrà dunque essere indicato).

Per quanto concerne i vini (ovviamente non DOP e IGP)  prodotti in Italia, usando però uve provenienti da altri Stati, dispone (in ultimo, ma così era anche nella legislazione previgente ad esso) già l’art.45 del regolamento della Commissione UE/33/2019.

Esso così prevede:

L’indicazione della provenienza di cui all’articolo 119, paragrafo 1, lettera d), del regolamento (UE) n. 1308/2013 è realizzata come segue:

a) per i prodotti vitivinicoli di cui all’allegato VII, parte II, punti (1), da (3) a (9), (15) e (16), del regolamento (UE) n. 1308/2013, utilizzando i termini «vino di […]», oppure «prodotto in […]», oppure «prodotto di […]» oppure «sekt di […]», o termini equivalenti, completati dal nome dello Stato membro o del paese terzo nel quale le uve sono state vendemmiate e vinificate;

b) per i vini ottenuti da una miscela di vini originari di diversi Stati membri, utilizzando i termini «vino dell’Unione europea» oppure «miscela di vini di diversi paesi dell’Unione europea», o termini equivalenti;

c) per i vini vinificati in uno Stato membro con uve vendemmiate in un altro Stato membro, utilizzando i termini «vino dell’Unione europea» oppure «vino ottenuto in […] da uve vendemmiate in […]», riportando il nome degli Stati membri di cui trattasi;

d) per i vini ottenuti da una miscela di vini originari di più paesi terzi, utilizzando i termini «miscela di […]», o termini equivalenti, completati dal nome dei paesi terzi di cui trattasi;

e) per i vini vinificati in un paese terzo con uve vendemmiate in un altro paese terzo, utilizzando i termini «vino ottenuto in […] da uve vendemmiate in […]» riportando il nome dei paesi terzi di cui trattasi”.

 


Si veda anche il comunicato MIPAAF  in materia.


 

Esaminiamo adesso più nel dettaglio il regolamento in questione.

 

L’articolo 26, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 1169/2011 stabilisce che, quando il paese d’origine o il luogo di provenienza di un alimento è indicato e non è lo stesso di quello del suo ingrediente primario, è indicato anche il paese d’origine o il luogo di provenienza dell’ingrediente primario in questione, oppure il paese d’origine o luogo di provenienza dell’ingrediente primario è indicato come diverso da quello dell’alimento.  La definizione di ingrediente primario la troviamo all’interno del medesimo Regolamento 1169/2011 «l’ingrediente o gli ingredienti di un alimento che rappresentano più del 50 % di tale alimento o che sono associati abitualmente alla denominazione di tale alimento dal consumatore e per i quali nella maggior parte dei casi è richiesta un’indicazione quantitativa». Mentre il primo viene definito come “criterio quantitativo” il secondo viene definito come “criterio qualitativo”.

Il suddetto articolo 26 ha lasciato spazio alla possibilità, per la Commissione Europea, di introdurre nuove regole per la composizione delle etichette che riportano il paese d’origine o il luogo di provenienza di un alimento quanto non sia lo stesso di quello del suo ingrediente primario. Ciò con il fine di prevenire da un lato condotte scorrette ed ingannevoli ai danni dei consumatori (con ovvie ripercussioni anche in ambito di concorrenza tra imprese) e dall’altro di garantire ai consumatori di fare scelte più consapevoli nell’acquisto di prodotti alimentari.

In considerazione di ciò, la Commissione Europea ha approvato il Regolamento n.775/2018 (recante modalità di applicazione dell’articolo 26, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, per quanto riguarda le norme sull’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza dell’ingrediente primario di un alimento). Regolamento che introduce le regole per indicare il paese d’origine o il luogo di provenienza dell’ingrediente primario di un alimento.

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In termini pratici, l’obbligo informativo insorge se sussistono due condizioni essenziali:

  • la prima, è che sia indicato (non necessariamente in etichetta) il paese d’origine o il luogo di provenienza del prodotto/alimento (si veda l’art.1 del Reg.775/2018), il che avviene “quando il paese d’origine o il luogo di provenienza di un alimento è indicato attraverso qualunque mezzo, come diciture, illustrazioni, simboli o termini che si riferiscono a luoghi o zone geografiche, ad eccezione dei termini geografici figuranti in denominazioni usuali e generiche, quando tali termini indicano letteralmente l’origine, ma la cui interpretazione comune non è un’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza.” (ad esempio l’utilizzo nel packaging del prodotto la bandiera italiana o una adesivo separato dall’etichetta che riporta la dicitura “sapori italiani” – “specialità italiane” – “gusto italiano”);
  • la seconda, è che l’ingrediente primario dell’alimento abbia un paese di origine o un luogo di provenienza diverso da quello dichiarato e risultante  sull’alimento;

Il Regolamento di esecuzione in esame, che troverà applicazione a partire dal 1° aprile 2020, è stato tuttavia destinatario di molte critiche da parte non solo delle associazioni di categoria, rappresentative del comparto agricolo, bensì da parte di tutti gli operatori del settore alimentare.

Una prima critica è stata posta in relazione all’assenza di trasparenza ed indeterminatezza con riferimento alle espressioni utilizzabili (UE, non UE, Regione, Stato membro, etc.), che, invece, dovrebbero consentire di individuare il paese di origine o luogo di provenienza dell’ingrediente primario con la stessa precisione di quello riferibile all’alimento. In tale contesto il consumatore sarebbe realmente in grado di fare scelte consapevoli? A parere di chi scrivere certamente sì.

La norma in commento non è diretta a garantire al consumatore scelte consapevoli bensì mira ad evitare che lo stesso possa essere tratto in inganno o cadere in errore. Per cui la sua formulazione garantisce certamente al consumatore di sapere se l’ingrediente primario (individuato in termini quantitativi o qualitativi) di quel determinato prodotto alimentare è lo stesso del paese d’origine o il luogo di provenienza dell’alimento in cui è incorporato.

Per raggiungere tale obiettivo, appunto, l’art.2 del Reg.775/2018 individua il riferimento alle zone geografiche che sarà necessario indicare in etichetta (senza necessità di specificare lo stato di provenienza).

Altra critica è stata sollevata in merito all’esclusione, della sua applicazione, nei casi in cui il paese d’origine o il luogo di provenienza di un alimento venga indicato attraverso l’uso di marchi d’impresa registrati i quali, ovviamente, contengano al loro interno indicazioni riferibili al paese d’origine o al luogo di provenienza dell’alimento.

Seppur l’art.26 del Reg. n.1169/2011 sia applicabile anche ai marchi d’impresa, il Reg. 775/2018 ne escluderebbe (temporaneamente, e quindi sino “all’adozione di norme specifiche riguardanti l’applicazione dell’articolo 26, paragrafo 3, a tali indicazioni.”) l’applicazione.

Tale posizione privilegiata dei marchi d’impresa registrati vanificherebbe interamente la finalità del disposto normativo, che è appunto quella di evitare condotte ingannevoli ed indirettamente garantire al consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, di effettuare scelte consapevoli.

Posto che ad oggi le norme specifiche menzionate non sono ancora state nemmeno abbozzate, il termine del periodo di esclusione dei marchi dall’applicazione del regolamento non si intravede nemmeno all’orizzonte.

A breve saremo tuttavia in grado di esaminare i concreti effetti, sul piano operativo, del Regolamento 775/2018 e così comprendere se i dubbi sino ad ora sollevati sulla sua portata applicativa si riveleranno fondati.

Di qui sarà opportuno, senz’altro, l’intervento da parte degli operatori del settore alimentare (gravati dalla loro posizione di garanzia) che si troveranno ad operare nel mercato, nell’attesa che vengano emanate le auspicate note chiarificatrici ed esplicative da parte della Commissione, al fine di dipanare tutte le questioni aperte.

Ferma resta comunque la responsabilità dell’OSA nell’utilizzo dei marchi di impresa che abbiano le caratteristiche predette (quindi contengano indicazioni riferibili all’origine o provenienza dell’alimento) i quali sono – e restano – comunque assoggettati alla normativa afferente le pratiche commerciali scorrette ai danni dei consumatori (Decreto Legislativo 2 agosto 2007, n. 146, emanato in attuazione della direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica le direttive 84/450/CEE, 97/7/CE, 98/27/CE, 2002/65/CE, e il Regolamento (CE) n. 2006/2004).

 

Liti in materia vitivinicola

Le liti in materia vitivinicola (ivi compreso il contenzioso agrario)  hanno spesso una loro forte tipicità: per affrontarle, è necessario conoscere a fondo tale settore.


 

Conoscere a fondo la materia è uno dei presupposti per affrontare adeguatamente le liti in materia vitivincola, sia quando esse sfociano in un contenzioso giudiziario, sia nella più aspicabile sede delle trattative pre-contenziose.

In effetti, la  negoziazione è il modo di risolvere le controversie nel modo migliore e più efficace (purchè vi sia spazio per negoziare, cosa ad esempio poco probabile in caso di recupero crediti verso debitori scarsamente solvibili), perché:

  • consente di risparmiare costi e tempo;
  • aiuta a preservare le relazioni tra le parti coinvolte in un conflitto;
  • consente alle parti di trovare le soluzioni adeguate per la propria attività specifica: un’uscita negoziata da una controversia comporterà una soluzione “personalizzata”

Al contrario, quando una controversia è risolta da una decisione in sede giudiziaria o arbitrale, generalmente la soluzione a cui si perviene risulta meno appetibile, essendo:

  • costosa (inoltre, non tutti i costi possono essere recuperati spesso dal perdente)
  • non prevedibile (anche perché spesso non è sicuro di quale sia la legge applicabile al contratto e quale sia la giurisdizione competente, soprattutto quando non è regolato nel contratto)
  • realizzata spesso sulla base di una legge che non è familiare o “socialmente accettata” da tutte le parti, in particolare quando la legge applicabile impone nel contratto la parte più potente
  • elaborata da un’autorità giudiziaria che non potrebbe avere una competenza specifica in materia di controversia, soprattutto se tale autorità non ha un dipartimento specializzato nel settore vitivinicolo o non ha sensibilità alle regole e alle pratiche commerciali esistenti in tale specifico settore in cui le parti operano;
  • rigida: l’applicazione delle regole stabilite dalla legge comporta una decisione “tagliata con la spada”;
  • distruttiva delle relazioni eistenti tra le parti o della stessa impresa (potrebbe essere il caso di una joint venture equamente controllata da entrambe le parti: se una controversia paralizza l’attività della joint venture, spesso la soluzione è solo la chiusura della società comune);
  • lunga nel rempo,  senza garanzie che il giudizio sarà concretamente applicabile alla fine del processo.

Se la vostra impresa è coinvolta in  liti in materia vitivinicola, possiamo aiutarvi a negoziare tali conflitti operando con due diverse modalità, e  cioè agendo come MEDIATORI imparziali ovvero ASSISTENDO NELLA NEGOZIAZIONE.


Nel primo caso (la MEDIAZIONE, di cui al decreto legislativo 28/2010),  la nostra azione avviene su un piano di assoluta imparzialità e neutralità rispetto alle parti coinvolte nelle liti in materia vitivinicola.

Cercheremo di agevolare la trattativa tra le parti, che potranno partecipare alla trattativa facendosi assistere dai propri consulenti di fiducia.

Possiamo agire con tale modalità, in quanto siamo mediatori accreditati presso l’Organismo di mediazione INMEDIAR (iscritto al numero n° 223 del relativo Registro tenuto dal Ministero della Giustizia) nonché responsabili della sua sede di Alba (che rientra nel circondario del Tribunale di Asti).

Se la vostra impresa, coinvolta in liti in materia vitivinicola,  desidera sottoporre a mediazione siffatte controversie, dovrà proporre la relativa domanda direttamente a detto Organismo.

Qualora noi dovessimo trovarsi ad agire come mediatori, non potremo successivamente operare nell’interesse specifico di una delle parti avverso l’altra.


Nel caso dell’ASSISTENZA DI UNA PARTE IN SEDE NEGOZIALE (che può avvenire in modo informale ovvero essere strutturata come “negoziazione assistita” ai sensi della D.L. 12 settembre 2014 n. 132,  convertito in L. 10 novembre 2014 n. 162 ), invece,  la nostra azione avviene esclusivamente nell’interesse ed a tutela della specifica parte che,  trovandosi ad affrontare liti in materia vitivinicola, richiede la nostra consulenza.

Se desiderate questo secondo tipo di assistenza, contattate direttamente il nostro studio.

Qualora noi dovessimo trovarsi ad assistere una parte in sede negoziale, successivamente sarà per noi incompatibile agire come mediatori per la medesima controversia.

Brexit negoziato futuro accordo

Brexit: attenzione al futuro accordo, se ci sarà!

(Brexit negoziato futuro accordo)


Il 31 gennaio di quest’anno il Regno Unito ha lasciato l’Unione Europea: la “Brexit” si è infine compiuta, ma pochi se ne sono ancora resi conto.  Ciò poiché sino al 31 dicembre 2020 vigerà un periodo transitorio, in cui Unione Europea e Regno Unito cercheranno di trovare un accordo – essenzialmente di natura commerciale – sulle loro future relazioni (Brexit negoziato futuro accordo).

Come da copione, il Regno Unito ha immediatamente compiuto le prime mosse, fissando pressoché unilateralmente il termine massimo per la durata dei negoziati e dichiarando di non essere così interessato al loro risultato, mostrandosi cioè disposto ad accettare anche una soluzione alquanto riduttiva (tipo l’accordo sul commercio attualmente vigente con tra UE e Canada, il cosiddetto “CETA”) ovvero minimale (come l’accordo tra UE ed Australia).

Al di là delle classiche quanto distinguibili mosse di strategia negoziale (mostrare i muscoli e dichiarare di non essere così interessato alla trattativa, tanto da non volervi dedicare oltre un certo tempo prefissato), in concreto il Regno Unito non può verosimilmente permettersi di agire coerentemente, a meno di non voler sacrificare il proprio settore finanziario, che rappresenta una delle voci più significative della propria economia.

Le citate soluzioni riduttive, infatti, significherebbero sostanzialmente l’esclusione di banche ed assicurazioni britanniche dal mercato unico europeo, il che causerebbe forse pesanti effetti negativi “a cascata”: ad esempio, la perdita di valore del settore immobiliare, che sopratutto a Londra si sta sviluppando in modo impressionante principalmente attorno alla city finanziaria e in buona parte proprio grazie ad essa.

I primi a percepire gli effetti della Brexit sono stati i pescatori (… ci avviciniamo così a chi legge questo giornale) francesi e quelli degli altri paesi che si affacciano sul Canale della Manica: Brexit ha significato l’immediato abbandono delle regole comunitarie da tutti “odiate”, che sì limitavano per tutti i diritti di pesca su tale zona, ma che nel contempo garantivano a tutti l’accesso a tali acque (cosa che si tendeva a dimentica, dandola per scontata).

Come reazione, il Ministro delle Finanze francese (Bruno Le Maire, come riferisce l’Agenzia di stampa Reuters, 6/2/2020) ha immediatamente dichiarato che la contropartita negoziale per la riapertura della pesca nel Canale della Manica non sarà il consentire alle istituzioni finanziare del Regno Unito l’accesso indiscriminato al mercato unico europeo. Tale posizione è stata poi confermata dal Presidente francese Macron.

Ciò basta ad intuire la posta in gioco.

Se poi pensiamo al citato accordo CETA, e cioè a quel modello che – a parole – sembrerebbe accattivante per il Primo Ministro britannico (Boris Johnson), è bene ricordarsi le vicissitudini che tale trattato ha passato al momento della sua ratifica da parte degli Stati membri della UE, sino ad arrivare ad un blocco temporaneo della procedura da parte del parlamento regionale della Vallonia.

In effetti, se da un canto l’accordo CETA produce sicuramente effetti positivi (ad esempio rafforza la tutela delle denominazioni di origine europee sul territorio canadese, cosa per noi preziosa), dall’altro sollevava il timore che ciò significasse aprire il mercato agro-alimentare europeo all’ingresso di prodotti non conformi ai nostri standard, sopratutto qualora si tratti di alimenti o derrate agricole prodotte negli USA , trasportate in Canada (dove possono entrare grazie agli accordi tra USA e Canada) e da lì introdotte nella UE (per effetto del trattato CETA).

Ancor più balza allora alla luce la delicatezza delle trattative appena iniziate ed il riflesso che esse potrebbero avere sul nostro settore agricolo.

Insomma, se da un lato vi è da augurarsi che tali trattative consentano l’accesso dei nostri prodotti agricoli ed alimentari al mercato britannico ed assicurino la protezione delle nostre denominazioni su tale territorio, dall’altro lato vi è il rischio di aprire pericolose porte di accesso al mercato interno europeo a vantaggio di prodotti di scarsa qualità e che non rispettano i nostri alti standard, patrimonio per noi inalienabile, sia sul piano economico, sia su quello ancora più importante della tutela della salute e dell’ambiente.

Peraltro il Primo ministro inglese non ha assolutamente nascosto di prediligere –   anche perché non ha forse altra scelta – un accordo commerciale con gli Stati Uniti d’America, che a loro volta adottano standard qualitativi più bassi dei nostri, come insegna il caso della “carne agli ormoni”.

Il tema è particolarmente complesso, poiché si intreccia anche con la questione del confine tra Irlanda del Nord e Repubblica Irlandese, la prima facente parte del Regno Unito (ma che continuerà a seguire, sino a che lo vorrà, le regole del mercato unico), la seconda aderente all’Unione Europea. Tra questi due territori l’Unione Europea e la stessa Repubblica Irlandese rifiutano che venga nuovamente innalzata una frontiera fisica. A sua volta, il governo di Londra rigetta qualsiasi controllo doganale tra l’Irlanda del Nord e la Gran Bretagna. Per cercare di “quadrare il cerchio” è stato sì trovato un accordo di massima, ma non solo appaiono oscure le relative modalità operative, ma è addirittura dubbio se ciò possa concretamente funzionare.

Perché ciò a noi interessa?

Perché da tale confine aperto, ma tra territori ormai non più soggetti ad una legislazione omogenea (le regole europee), potrebbero in futuro entrare all’interno del nostro mercato unico alimenti o derrate agricole prodotti in Gran Bretagna o negli Stati Uniti (cui la prima sembra intenda aprire le proprie porte, anche per crearsi un’alternativa allo sbocco commerciale appena perso), rispettando una legislazione “al ribasso” rispetto ai nostri standard. Si deve quindi anche evitare di creare un “cavallo di Troia” per le merci americane, in un momento in cui il Presidente di tale paese (oltre ad indebolire i controlli sul settore finanziario, in precedenza introdotti dopo la crisi dei “sub-prime”, che circa dieci anni fa ha travolto l’economia mondiale) sta peraltro togliendo ogni vincolo a tutela dell’ambiente e sta conducendo una politica fortemente protezionistica, in particolar modo in favore dei prodotti agricoli statunitensi.

Valga ricordarsi che la malattia della “mucca pazza”, che mise a repentaglio la salute di milioni di consumatori e devastò il mercato europeo delle carni, si originò proprio nel Regno Unito.

Da tale evento, l’Unione Europea elaborò le proprie misure per la sicurezza alimentare, caraterizzate da un notevole rigore a tutela della salute umana.

Regole da cui in Regno Unito si è adesso liberato: se non si controlleranno alle frontiere le carni prodotte ivi prodotte, potranno giungere sulle nostre tavole prodotti meno sicuri di quelli europei, soggetti a standard qualitativi più severi.

Minaccia seria, sia per la salute umana che per la leale concorrenza tra imprese.

Insomma, si palesa il rischio che veniva paventato per l’accordo CETA, verosimilmente scongiurato con l’introduzione di alcuni controlli doganali … controlli che dovrebbero allora sussistere anche tra Irlanda del Nord e Gran Bretagna, così impedendo la citata “quadratura del cerchio”.

Pare altresì che il Primo ministro inglese abbia dato indicazioni alla propria squadra di negoziatori (Brexit negoziato futuro accordo) di “fare melina” sul problema di futuri controlli alle frontiere tra Unione Europea e Regno Unito (così l’agenzia Reuters, 23/2/2020).

Si evince dunque che il settore agro-alimentare è in prima linea in questa complessa trattativa. Vi sono altresì sentori che esso possa costituire una merce di scambio, per trovare a suo discapito equilibri in altri campi (il famoso quanto antico “do ut des”).

Veniamo allora al punto.

Gli eventuali futuri accordi tra Regno Unito ed Unione Europea (Brexit negoziato futuro accordo) vengono sì negoziati dalla Commissione Europea, ma – una volta raggiunti – vanno poi ratificati sia dal Parlamento Europeo e Consiglio Europeo, sia da tutti gli Stati membri.

L’Italia ha dunque piena possibilità di far valere la propria voce nonché di tutelare gli interessi nazionali in un contesto europeo, ma deve farlo sin dagli inizi. In altre parole, l’Italia deve avere ben chiaro quali sono i propri interessi, per influenzare – seguendo correttamente i canali istituzionali – l’andamento delle trattative, sì da partecipare al “gioco” negoziale come una consapevole protagonista e non subirlo passivamente.

In tal modo, se si troverà un accordo, esso sarà anche frutto della nostra volontà e delle nostre scelte.

Per contro, a “giochi fatti”, sarebbe veramente una politica di basso profilo mettersi poi di traverso e cercare di bloccare la ratifica dell’accordo stesso, assumendo atteggiamenti vittimistici (in piccolo, si è già di recente sperimentato tale approccio, quando è entrato in vigore il nuovo regolamento di Parlamento Europeo e Consiglio sui prodotti biologici, che i nostri rappresentanti governativi hanno votato a Bruxelles senza riserva alcuna ed hanno poi contestato parlando dal nostro paese …), magari solo utili al fine di una campagna elettorale nazionale.

Approccio peraltro pericoloso, poiché così malamente reagendo, si rischierebbe di provocare più danni che altro.

Negoziare con chiarezza di vedute e poi concludere un buon accordo (cosa completamente antitetica dal trovare un accordo a tutti i costi) avrebbe sicuramente un effetto positivo per l’economia nostra e quella di tutti gli altri Stati coinvolti: questo dunque l’obiettivo che – con la partecipazione delle associazioni di categoria – politici e funzionari italiani hanno da perseguire (Brexit negoziato futuro accordo).

Da subito!

Ma se ne parla?