etichettatura vino alimenti

Le regole per l’etichettaura del vino  e degli alimenti sono previste dal diritto comunitario (etichettatura vino alimenti)


Per evitare ostacoli al commercio dei prodotti alimentari e vinicoli, etichettatura vino alimenti è disciplinata dal diritto dell’Unione Europea.

Il testo base è costituito dal regolamento di Consiglio e Parlamento europeo UE/1169/2011.

Le norme ivi contenute si applicano a tutti i prodotti alimentari e – salve le deroghe espressamente previste dal regolamento stesso – anche ai prodotti vinicoli.

Fermo quanto sopra, per quanto concerne i vini  le specifiche norme sull’etichettatura sono contenute:

– nell’ordinamento dell’Unione Europea

– nell’ordinamento italiano

 

Per quanto concerne l’etichettatura dei vini varietali italiani, si deve quindi fare riferimento a detto DM MIPAAF 13 agosto 2012.

Si aggiungono poi le norme sull’etichettatura ambientale.


Sino al 2021, tra le deroghe più significative per l’etichettatura dei vini rispetto alla disciplina generale per gli alimenti, vi era quella che li esentava dall’indicare  sia gli ingredienti, sia il contenuto calorico.

Nel contesto della  riforma della PAC post-2020 (su cui l’accordo si è formato a fine giugno 2021) si è deciso come applicare anche ai vini le norme che impongono di indicare sia gli ingredienti, sia il contenuto calorico.

La nuova PAC post-2020 (2023-2007)

Le nuove norme sono portate dal Regolamento UE/2117/2021.

Per quanto concerne la revisione regime UE indicazioni geografiche nel settore vitivinicolo, rileva il comma 119 dell’art.1 di detto regolamento UE/2117/2021, che così modifica le pertinenti norme del regolamento UE/1308/2013 sulla OCM Unica

 

l’articolo 119 è così modificato:

a)

il paragrafo 1 è così modificato:

i)

la lettera a) è sostituita dalla seguente:

«a)

la designazione della categoria di prodotti vitivinicoli in conformità dell’allegato VII, parte II. Per le categorie di prodotti vitivinicoli di cui all’allegato VII, parte II, punto 1 e punti da 4 a 9, quando tali prodotti sono stati sottoposti a un trattamento di dealcolizzazione conformemente all’allegato VIII, parte I, sezione E, la designazione della categoria è accompagnata:

i)

dal termine “dealcolizzato” se il titolo alcolometrico effettivo del prodotto non è superiore a 0,5 % vol., o

ii)

dal termine “parzialmente dealcolizzato” se il titolo alcolometrico effettivo del prodotto è superiore a 0,5 % vol. ed è inferiore al titolo alcolometrico effettivo minimo della categoria che precede la dealcolizzazione.»;

ii)

sono aggiunte le lettere seguenti:

«h)

la dichiarazione nutrizionale ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera l), del regolamento (UE) n. 1169/2011;

i)

l‘elenco degli ingredienti ai sensi dell‘articolo 9, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 1169/2011;

j)

nel caso di prodotti vitivinicoli che sono stati sottoposti a un trattamento di dealcolizzazione conformemente all’allegato VIII, parte I, sezione E, e aventi un titolo alcolometrico volumico effettivo inferiore al 10 %, il termine minimo di conservazione a norma dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera f), del regolamento (UE) n. 1169/2011.»;

b)

il paragrafo 2 è sostituito dal seguente:

«2.   In deroga al paragrafo 1, lettera a), per i prodotti vitivinicoli diversi da quelli sottoposti a un trattamento di dealcolizzazione conformemente all’allegato VIII, parte I, sezione E, il riferimento alla categoria di prodotti vitivinicoli può essere omesso per i vini sulla cui etichetta figura il nome di una denominazione d’origine protetta o di un’indicazione geografica protetta.»;

c)

sono aggiunti i paragrafi seguenti:

«4.   In deroga al paragrafo 1, lettera h), la dichiarazione nutrizionale sull’ imballaggio o su un’etichetta a esso apposta può essere limitata al valore energetico, che può essere espresso mediante il simbolo “E” (energia). In tali casi, la dichiarazione nutrizionale completa è fornita per via elettronica mediante indicazione sull’imballaggio o su un’etichetta a esso apposta. Tale dichiarazione nutrizionale non figura insieme ad altre informazioni inserite a fini commerciali o di marketing e non vengono raccolti o tracciati dati degli utenti;

5.   In deroga al paragrafo 1, lettera i), l’elenco degli ingredienti può essere fornito per via elettronica mediante indicazione sull’ imballaggio o su un’etichetta a esso apposta. In tali casi, si applicano i requisiti seguenti:

a)

non sono raccolti o tracciati dati degli utenti;

b)

l’elenco degli ingredienti non figura insieme ad altre informazioni inserite a fini commerciali o di marketing; e

c)

l’indicazione delle informazioni di cui all’articolo 9, paragrafo 1, lettera c), del regolamento (UE) n. 1169/2011 figura direttamente sull’imballaggio o su un’etichetta a esso apposta.

L’indicazione di cui al primo comma, lettera c), del presente paragrafo comprende la parola “contiene” seguita dal nome della sostanza o del prodotto che figura nell’allegato II del regolamento (UE) n. 1169/2011.»;

Il regolamento UE/1169/2011 sull’etichettatura degli alimento porta (art.2, comma 2, lettera f) la seguente definizione di “ingrediente“:

«ingrediente» : qualunque sostanza o prodotto, compresi gli aromi, gli additivi e gli enzimi alimentari, e qualunque costituente di un ingrediente composto utilizzato nella fabbricazione o nella preparazione di un alimento e ancora presente nel prodotto finito, anche se sotto forma modificata;  i residui non sono considerati come ingredienti;

Quanto ai composti enologici, il Codice enologico europeo (Regolamento della Commissione 934/2019) distingue appositamente tra “additivi” e “coadiuvanti tecnologici” dei vini.

Vista la definizione di “ingrediente” portata dal citato regolamento 1169/2011 e tenuto conto che le nuove norme sull’indicazione degli ingredienti per i vini sembrano condurre a tale definizione, verosimilmente  dovranno figurare tra gli ingredienti dei vini gli “additivi“, con esclusione dei “composti enologici“, siccome questi ultimi tendono a lasciare semplicemente dei residui (se così non fosse, vanno invece indicati in etichetta).



L’etichettatura dei vini è però soggetta ad ulteriori disposizioni, specifiche invece per tale settore.

Tali apposite regole sono contenute nel regolamento di Consiglio e Commissione UE/1308/2013 (regolamento sulla OCM Unica, articoli  117 e seguenti) nonché nell’apposito regolamento attuativo della Commissione (regolamento UE/33/2019, art.40 e seguenti).

In virtù dei regolamenti sopra indicarti, etichettura vini alimenti subisce anche restrizioni significative, in quanto va realizzata senza usurpare o contraffare alcuna DOP o IGP.

Casi particolari diapplicazione di dette restrizioni sono:

In attuazione dei principi sull’etichettatura vini alimenti, la Commissione ha di recente emanato un regolamento, che dal 1 aprile 2020 impone di indicare in etichetta il paese di origine dell’ingrediente primario di un alimento, quando esso è diverso da quello del paese ove viene prodotto l’alimento finale etichettato.

Pratiche enologiche OIV

La Commissione ha pubblicato l’elenco delle Pratiche enologiche ammesse da OIV (Pratiche enologiche OIV)


Schede pratiche enologiche OIV (Organizzazione Internazionale della Vite e del Vino):   in adempimento a quanto previsto nel Codice enologico europeo, la Commissione ha pubblicato l’elenco delle pratiche di cantina ammesse da OIV (Organizzazione Internazionale della Vite e del Vino), giacché esse sono richiamate dalle stesse tabelle di detto Codice, che individuano le pratiche ed i composti enologici da esso autorizzati (tabelle 1 e 2, portate dall’allegato I al Codice stesso).

In adempimento a quanto previsto nel Codice enologico europeo,   la Commissione ha pubblicato l’elenco delle pratiche di cantina ammesse da OIV (Organizzazione Internazionale della Vite e del Vino), giacché esse sono richiamate dalle stesse tabelle di detto Codice, che individuano le pratiche ed i composti enologici da esso autorizzati (tabelle 1 e 2, portate dall’allegato I al Codice stesso: in entrambe, si veda la colonna n.3).

In effetti, in base a quanto sancito nella regolamento base sulla OCM Unica (regolamento di Consiglio e Parlamento Europeo UE/1308/2013, art.80, comma 5), la Commissione ha sì ricevuto la delega a disciplinare le pratiche di cantina ed i composti enologi, ma nel farlo essa deve adesso basarsi

“sui metodi pertinenti raccomandati e pubblicati dall’Organizzazione internazionale della vigna e del vino (OIV), a meno che tali metodi siano inefficaci o inadeguati per conseguire l’obiettivo perseguito dall’Unione”.

Circa i requisiti di purezza di additivi e coadivuanti per il vino, Il Codice enologico europeo (art.9) rinvia – per quanto non specificamente disciplinato dalla normativa comunitaria (costituita dal regolamento della Commissione UE/231/2012)  – al Codice enologico internazionale elaborato sempre da OIV.

La Commissione ha comunque evidenziato che – in caso di contrasto tra  quanto rispettivamente consentito dal Codice enologico europeo e quanto da OIV – prevalgono le disposizioni del primo.

Per quanto concerne gli enzimi (quelli autorizzati dal Codice enologico europeo, che costituiscono dei coadiuvanti tecnologici), sempre all’art.9 quest’ultimo stabilisce che:

 “gli enzimi e i preparati enzimatici utilizzati nelle pratiche e nei trattamenti enologici autorizzati elencati nell’allegato I, parte A, rispondono ai requisiti di cui al regolamento (CE) n. 1332/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio.


Il Codice enologico europeo è attualmente costituito dal regolamento della Commissione UE/934/2019, il quale indica quali sono le pratiche enologiche e quali gli ingredienti enologici autorizzati per la produzione di vino nell’Unione Europea.

Di conseguenza, nessun vino può essere legalmente commercializzato nell’Unione Europea, se prodotto utilizzando:

  • tecniche e/o ingredienti enologici diverse da quelle autorizzate dal Codice stesso (salve sperimentazioni nazionali, debitamente autorizzate seguendo le procedure previste dal Codice in questione)
  • tecniche e/o ingredienti enologici  autorizzati, ma violando i limiti eventualmente stabiliti dal Codice enologico per il loro utilizzo.

Per i vini importati da Stati terzi valgono i medesimi principi, a meno che non siano derogati da appositi accordi intrnazionali conclusi in materia dall’Unione Europea con lo Stato terzo produttore (si pensi a quello con gli Stati Uniti d’America, fatto nel 2006).


OIV - Nornativa tecnica


 

Indicazione origine provenienza ingrediente principale alimenti

Indicazione origine provenienza ingrediente principale alimenti:  obbligatoria dal 1 aprile 2020


Indicazione origine provenienza ingrediente principale alimenti:  il regolamento della Commissione UE/775/2018 impone che dal 1 aprile 2020 l’etichetta degli alimenti contenga l’indicazione del paese di provenienza dell’ingrediente principale, se tale paese è diverso da quello indicato come origine del prodotto alimentare che contiene detto ingrediente.

Si aggiunge così un tassello al quadro giuridico sull’etichettatura dei prodotti alimentari, costituito dal regolamento UE/1169/2011.

Il regolamento prevede diverse espressioni che, in tali circostanze,  potranno essere usate per indicare il paese di origine dell’ingrediente principale, e cioè:

a) con riferimento a una delle seguenti zone geografiche:

i) «UE», «non UE» o «UE e non UE»; o

ii) una regione o qualsiasi altra zona geografica all’interno di diversi Stati membri o di paesi terzi, se definita tale in forza del diritto internazionale pubblico o ben chiara per il consumatore medio normalmente informato; o

iii) la zona di pesca FAO, o il mare o il corpo idrico di acqua dolce se definiti tali in forza del diritto internazionale o ben chiari per il consumatore medio normalmente informato; o

iv) uno o più Stati membri o paesi terzi; o

v) una regione o qualsiasi altra zona geografica all’interno di uno Stato membro o di un paese terzo, ben chiara per il consumatore medio normalmente informato; o

vi) il paese d’origine o il luogo di provenienza, conformemente alle specifiche disposizioni dell’Unione applicabili agli ingredienti primari in quanto tali;

b) oppure attraverso una dicitura del seguente tenore:

«(nome dell’ingrediente primario) non proviene/non provengono da (paese d’origine o luogo di provenienza dell’alimento)» o una formulazione che possa avere lo stesso significato per il consumatore.

 

Tali espressioni – che non si appicano  ai prodotti DOP e IGP, siano essi alimenti o vini, ivi compresi quelli aromatizzati (vedasi l’art.1, comma 2, del regolamento in questione) – dovranno comparire nello stesso campo visivo dove è indicato il paese di provenienza del prodotto alimentare finale.

Esse dovranno inoltre venire scritte con caratteri aventi una dimensione specifica, che varia a seconda se il paese –  indicato come origine dell’alimento  finale – risulti da testo letterale ovvero in altro modo (quali immagini, …)

Trattasi dunque di un primo passo, mediante il quale si dovrà specificare – ad esempio –  se la pasta (alimento finale) italiana venga prodotta con grano (ingrediente principale) parimenti italiano oppure proveniente da altro luogo (nel qual caso, quest’ultimo dovrà dunque essere indicato).

Per quanto concerne i vini (ovviamente non DOP e IGP)  prodotti in Italia, usando però uve provenienti da altri Stati, dispone (in ultimo, ma così era anche nella legislazione previgente ad esso) già l’art.45 del regolamento della Commissione UE/33/2019.

Esso così prevede:

L’indicazione della provenienza di cui all’articolo 119, paragrafo 1, lettera d), del regolamento (UE) n. 1308/2013 è realizzata come segue:

a) per i prodotti vitivinicoli di cui all’allegato VII, parte II, punti (1), da (3) a (9), (15) e (16), del regolamento (UE) n. 1308/2013, utilizzando i termini «vino di […]», oppure «prodotto in […]», oppure «prodotto di […]» oppure «sekt di […]», o termini equivalenti, completati dal nome dello Stato membro o del paese terzo nel quale le uve sono state vendemmiate e vinificate;

b) per i vini ottenuti da una miscela di vini originari di diversi Stati membri, utilizzando i termini «vino dell’Unione europea» oppure «miscela di vini di diversi paesi dell’Unione europea», o termini equivalenti;

c) per i vini vinificati in uno Stato membro con uve vendemmiate in un altro Stato membro, utilizzando i termini «vino dell’Unione europea» oppure «vino ottenuto in […] da uve vendemmiate in […]», riportando il nome degli Stati membri di cui trattasi;

d) per i vini ottenuti da una miscela di vini originari di più paesi terzi, utilizzando i termini «miscela di […]», o termini equivalenti, completati dal nome dei paesi terzi di cui trattasi;

e) per i vini vinificati in un paese terzo con uve vendemmiate in un altro paese terzo, utilizzando i termini «vino ottenuto in […] da uve vendemmiate in […]» riportando il nome dei paesi terzi di cui trattasi”.

 


Si veda anche il comunicato MIPAAF  in materia.


 

Esaminiamo adesso più nel dettaglio il regolamento in questione.

 

L’articolo 26, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 1169/2011 stabilisce che, quando il paese d’origine o il luogo di provenienza di un alimento è indicato e non è lo stesso di quello del suo ingrediente primario, è indicato anche il paese d’origine o il luogo di provenienza dell’ingrediente primario in questione, oppure il paese d’origine o luogo di provenienza dell’ingrediente primario è indicato come diverso da quello dell’alimento.  La definizione di ingrediente primario la troviamo all’interno del medesimo Regolamento 1169/2011 «l’ingrediente o gli ingredienti di un alimento che rappresentano più del 50 % di tale alimento o che sono associati abitualmente alla denominazione di tale alimento dal consumatore e per i quali nella maggior parte dei casi è richiesta un’indicazione quantitativa». Mentre il primo viene definito come “criterio quantitativo” il secondo viene definito come “criterio qualitativo”.

Il suddetto articolo 26 ha lasciato spazio alla possibilità, per la Commissione Europea, di introdurre nuove regole per la composizione delle etichette che riportano il paese d’origine o il luogo di provenienza di un alimento quanto non sia lo stesso di quello del suo ingrediente primario. Ciò con il fine di prevenire da un lato condotte scorrette ed ingannevoli ai danni dei consumatori (con ovvie ripercussioni anche in ambito di concorrenza tra imprese) e dall’altro di garantire ai consumatori di fare scelte più consapevoli nell’acquisto di prodotti alimentari.

In considerazione di ciò, la Commissione Europea ha approvato il Regolamento n.775/2018 (recante modalità di applicazione dell’articolo 26, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, per quanto riguarda le norme sull’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza dell’ingrediente primario di un alimento). Regolamento che introduce le regole per indicare il paese d’origine o il luogo di provenienza dell’ingrediente primario di un alimento.

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In termini pratici, l’obbligo informativo insorge se sussistono due condizioni essenziali:

  • la prima, è che sia indicato (non necessariamente in etichetta) il paese d’origine o il luogo di provenienza del prodotto/alimento (si veda l’art.1 del Reg.775/2018), il che avviene “quando il paese d’origine o il luogo di provenienza di un alimento è indicato attraverso qualunque mezzo, come diciture, illustrazioni, simboli o termini che si riferiscono a luoghi o zone geografiche, ad eccezione dei termini geografici figuranti in denominazioni usuali e generiche, quando tali termini indicano letteralmente l’origine, ma la cui interpretazione comune non è un’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza.” (ad esempio l’utilizzo nel packaging del prodotto la bandiera italiana o una adesivo separato dall’etichetta che riporta la dicitura “sapori italiani” – “specialità italiane” – “gusto italiano”);
  • la seconda, è che l’ingrediente primario dell’alimento abbia un paese di origine o un luogo di provenienza diverso da quello dichiarato e risultante  sull’alimento;

Il Regolamento di esecuzione in esame, che troverà applicazione a partire dal 1° aprile 2020, è stato tuttavia destinatario di molte critiche da parte non solo delle associazioni di categoria, rappresentative del comparto agricolo, bensì da parte di tutti gli operatori del settore alimentare.

Una prima critica è stata posta in relazione all’assenza di trasparenza ed indeterminatezza con riferimento alle espressioni utilizzabili (UE, non UE, Regione, Stato membro, etc.), che, invece, dovrebbero consentire di individuare il paese di origine o luogo di provenienza dell’ingrediente primario con la stessa precisione di quello riferibile all’alimento. In tale contesto il consumatore sarebbe realmente in grado di fare scelte consapevoli? A parere di chi scrivere certamente sì.

La norma in commento non è diretta a garantire al consumatore scelte consapevoli bensì mira ad evitare che lo stesso possa essere tratto in inganno o cadere in errore. Per cui la sua formulazione garantisce certamente al consumatore di sapere se l’ingrediente primario (individuato in termini quantitativi o qualitativi) di quel determinato prodotto alimentare è lo stesso del paese d’origine o il luogo di provenienza dell’alimento in cui è incorporato.

Per raggiungere tale obiettivo, appunto, l’art.2 del Reg.775/2018 individua il riferimento alle zone geografiche che sarà necessario indicare in etichetta (senza necessità di specificare lo stato di provenienza).

Altra critica è stata sollevata in merito all’esclusione, della sua applicazione, nei casi in cui il paese d’origine o il luogo di provenienza di un alimento venga indicato attraverso l’uso di marchi d’impresa registrati i quali, ovviamente, contengano al loro interno indicazioni riferibili al paese d’origine o al luogo di provenienza dell’alimento.

Seppur l’art.26 del Reg. n.1169/2011 sia applicabile anche ai marchi d’impresa, il Reg. 775/2018 ne escluderebbe (temporaneamente, e quindi sino “all’adozione di norme specifiche riguardanti l’applicazione dell’articolo 26, paragrafo 3, a tali indicazioni.”) l’applicazione.

Tale posizione privilegiata dei marchi d’impresa registrati vanificherebbe interamente la finalità del disposto normativo, che è appunto quella di evitare condotte ingannevoli ed indirettamente garantire al consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, di effettuare scelte consapevoli.

Posto che ad oggi le norme specifiche menzionate non sono ancora state nemmeno abbozzate, il termine del periodo di esclusione dei marchi dall’applicazione del regolamento non si intravede nemmeno all’orizzonte.

A breve saremo tuttavia in grado di esaminare i concreti effetti, sul piano operativo, del Regolamento 775/2018 e così comprendere se i dubbi sino ad ora sollevati sulla sua portata applicativa si riveleranno fondati.

Di qui sarà opportuno, senz’altro, l’intervento da parte degli operatori del settore alimentare (gravati dalla loro posizione di garanzia) che si troveranno ad operare nel mercato, nell’attesa che vengano emanate le auspicate note chiarificatrici ed esplicative da parte della Commissione, al fine di dipanare tutte le questioni aperte.

Ferma resta comunque la responsabilità dell’OSA nell’utilizzo dei marchi di impresa che abbiano le caratteristiche predette (quindi contengano indicazioni riferibili all’origine o provenienza dell’alimento) i quali sono – e restano – comunque assoggettati alla normativa afferente le pratiche commerciali scorrette ai danni dei consumatori (Decreto Legislativo 2 agosto 2007, n. 146, emanato in attuazione della direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica le direttive 84/450/CEE, 97/7/CE, 98/27/CE, 2002/65/CE, e il Regolamento (CE) n. 2006/2004).

 

Liti in materia vitivinicola

Le liti in materia vitivinicola (ivi compreso il contenzioso agrario)  hanno spesso una loro forte tipicità: per affrontarle, è necessario conoscere a fondo tale settore.


 

Conoscere a fondo la materia è uno dei presupposti per affrontare adeguatamente le liti in materia vitivincola, sia quando esse sfociano in un contenzioso giudiziario, sia nella più aspicabile sede delle trattative pre-contenziose.

In effetti, la  negoziazione è il modo di risolvere le controversie nel modo migliore e più efficace (purchè vi sia spazio per negoziare, cosa ad esempio poco probabile in caso di recupero crediti verso debitori scarsamente solvibili), perché:

  • consente di risparmiare costi e tempo;
  • aiuta a preservare le relazioni tra le parti coinvolte in un conflitto;
  • consente alle parti di trovare le soluzioni adeguate per la propria attività specifica: un’uscita negoziata da una controversia comporterà una soluzione “personalizzata”

Al contrario, quando una controversia è risolta da una decisione in sede giudiziaria o arbitrale, generalmente la soluzione a cui si perviene risulta meno appetibile, essendo:

  • costosa (inoltre, non tutti i costi possono essere recuperati spesso dal perdente)
  • non prevedibile (anche perché spesso non è sicuro di quale sia la legge applicabile al contratto e quale sia la giurisdizione competente, soprattutto quando non è regolato nel contratto)
  • realizzata spesso sulla base di una legge che non è familiare o “socialmente accettata” da tutte le parti, in particolare quando la legge applicabile impone nel contratto la parte più potente
  • elaborata da un’autorità giudiziaria che non potrebbe avere una competenza specifica in materia di controversia, soprattutto se tale autorità non ha un dipartimento specializzato nel settore vitivinicolo o non ha sensibilità alle regole e alle pratiche commerciali esistenti in tale specifico settore in cui le parti operano;
  • rigida: l’applicazione delle regole stabilite dalla legge comporta una decisione “tagliata con la spada”;
  • distruttiva delle relazioni eistenti tra le parti o della stessa impresa (potrebbe essere il caso di una joint venture equamente controllata da entrambe le parti: se una controversia paralizza l’attività della joint venture, spesso la soluzione è solo la chiusura della società comune);
  • lunga nel rempo,  senza garanzie che il giudizio sarà concretamente applicabile alla fine del processo.

Se la vostra impresa è coinvolta in  liti in materia vitivinicola, possiamo aiutarvi a negoziare tali conflitti operando con due diverse modalità, e  cioè agendo come MEDIATORI imparziali ovvero ASSISTENDO NELLA NEGOZIAZIONE.


Nel primo caso (la MEDIAZIONE, di cui al decreto legislativo 28/2010),  la nostra azione avviene su un piano di assoluta imparzialità e neutralità rispetto alle parti coinvolte nelle liti in materia vitivinicola.

Cercheremo di agevolare la trattativa tra le parti, che potranno partecipare alla trattativa facendosi assistere dai propri consulenti di fiducia.

Possiamo agire con tale modalità, in quanto siamo mediatori accreditati presso l’Organismo di mediazione INMEDIAR (iscritto al numero n° 223 del relativo Registro tenuto dal Ministero della Giustizia) nonché responsabili della sua sede di Alba (che rientra nel circondario del Tribunale di Asti).

Se la vostra impresa, coinvolta in liti in materia vitivinicola,  desidera sottoporre a mediazione siffatte controversie, dovrà proporre la relativa domanda direttamente a detto Organismo.

Qualora noi dovessimo trovarsi ad agire come mediatori, non potremo successivamente operare nell’interesse specifico di una delle parti avverso l’altra.


Nel caso dell’ASSISTENZA DI UNA PARTE IN SEDE NEGOZIALE (che può avvenire in modo informale ovvero essere strutturata come “negoziazione assistita” ai sensi della D.L. 12 settembre 2014 n. 132,  convertito in L. 10 novembre 2014 n. 162 ), invece,  la nostra azione avviene esclusivamente nell’interesse ed a tutela della specifica parte che,  trovandosi ad affrontare liti in materia vitivinicola, richiede la nostra consulenza.

Se desiderate questo secondo tipo di assistenza, contattate direttamente il nostro studio.

Qualora noi dovessimo trovarsi ad assistere una parte in sede negoziale, successivamente sarà per noi incompatibile agire come mediatori per la medesima controversia.

Brexit negoziato futuro accordo

Brexit: attenzione al futuro accordo, se ci sarà!

(Brexit negoziato futuro accordo)


Il 31 gennaio di quest’anno il Regno Unito ha lasciato l’Unione Europea: la “Brexit” si è infine compiuta, ma pochi se ne sono ancora resi conto.  Ciò poiché sino al 31 dicembre 2020 vigerà un periodo transitorio, in cui Unione Europea e Regno Unito cercheranno di trovare un accordo – essenzialmente di natura commerciale – sulle loro future relazioni (Brexit negoziato futuro accordo).

Come da copione, il Regno Unito ha immediatamente compiuto le prime mosse, fissando pressoché unilateralmente il termine massimo per la durata dei negoziati e dichiarando di non essere così interessato al loro risultato, mostrandosi cioè disposto ad accettare anche una soluzione alquanto riduttiva (tipo l’accordo sul commercio attualmente vigente con tra UE e Canada, il cosiddetto “CETA”) ovvero minimale (come l’accordo tra UE ed Australia).

Al di là delle classiche quanto distinguibili mosse di strategia negoziale (mostrare i muscoli e dichiarare di non essere così interessato alla trattativa, tanto da non volervi dedicare oltre un certo tempo prefissato), in concreto il Regno Unito non può verosimilmente permettersi di agire coerentemente, a meno di non voler sacrificare il proprio settore finanziario, che rappresenta una delle voci più significative della propria economia.

Le citate soluzioni riduttive, infatti, significherebbero sostanzialmente l’esclusione di banche ed assicurazioni britanniche dal mercato unico europeo, il che causerebbe forse pesanti effetti negativi “a cascata”: ad esempio, la perdita di valore del settore immobiliare, che sopratutto a Londra si sta sviluppando in modo impressionante principalmente attorno alla city finanziaria e in buona parte proprio grazie ad essa.

I primi a percepire gli effetti della Brexit sono stati i pescatori (… ci avviciniamo così a chi legge questo giornale) francesi e quelli degli altri paesi che si affacciano sul Canale della Manica: Brexit ha significato l’immediato abbandono delle regole comunitarie da tutti “odiate”, che sì limitavano per tutti i diritti di pesca su tale zona, ma che nel contempo garantivano a tutti l’accesso a tali acque (cosa che si tendeva a dimentica, dandola per scontata).

Come reazione, il Ministro delle Finanze francese (Bruno Le Maire, come riferisce l’Agenzia di stampa Reuters, 6/2/2020) ha immediatamente dichiarato che la contropartita negoziale per la riapertura della pesca nel Canale della Manica non sarà il consentire alle istituzioni finanziare del Regno Unito l’accesso indiscriminato al mercato unico europeo. Tale posizione è stata poi confermata dal Presidente francese Macron.

Ciò basta ad intuire la posta in gioco.

Se poi pensiamo al citato accordo CETA, e cioè a quel modello che – a parole – sembrerebbe accattivante per il Primo Ministro britannico (Boris Johnson), è bene ricordarsi le vicissitudini che tale trattato ha passato al momento della sua ratifica da parte degli Stati membri della UE, sino ad arrivare ad un blocco temporaneo della procedura da parte del parlamento regionale della Vallonia.

In effetti, se da un canto l’accordo CETA produce sicuramente effetti positivi (ad esempio rafforza la tutela delle denominazioni di origine europee sul territorio canadese, cosa per noi preziosa), dall’altro sollevava il timore che ciò significasse aprire il mercato agro-alimentare europeo all’ingresso di prodotti non conformi ai nostri standard, sopratutto qualora si tratti di alimenti o derrate agricole prodotte negli USA , trasportate in Canada (dove possono entrare grazie agli accordi tra USA e Canada) e da lì introdotte nella UE (per effetto del trattato CETA).

Ancor più balza allora alla luce la delicatezza delle trattative appena iniziate ed il riflesso che esse potrebbero avere sul nostro settore agricolo.

Insomma, se da un lato vi è da augurarsi che tali trattative consentano l’accesso dei nostri prodotti agricoli ed alimentari al mercato britannico ed assicurino la protezione delle nostre denominazioni su tale territorio, dall’altro lato vi è il rischio di aprire pericolose porte di accesso al mercato interno europeo a vantaggio di prodotti di scarsa qualità e che non rispettano i nostri alti standard, patrimonio per noi inalienabile, sia sul piano economico, sia su quello ancora più importante della tutela della salute e dell’ambiente.

Peraltro il Primo ministro inglese non ha assolutamente nascosto di prediligere –   anche perché non ha forse altra scelta – un accordo commerciale con gli Stati Uniti d’America, che a loro volta adottano standard qualitativi più bassi dei nostri, come insegna il caso della “carne agli ormoni”.

Il tema è particolarmente complesso, poiché si intreccia anche con la questione del confine tra Irlanda del Nord e Repubblica Irlandese, la prima facente parte del Regno Unito (ma che continuerà a seguire, sino a che lo vorrà, le regole del mercato unico), la seconda aderente all’Unione Europea. Tra questi due territori l’Unione Europea e la stessa Repubblica Irlandese rifiutano che venga nuovamente innalzata una frontiera fisica. A sua volta, il governo di Londra rigetta qualsiasi controllo doganale tra l’Irlanda del Nord e la Gran Bretagna. Per cercare di “quadrare il cerchio” è stato sì trovato un accordo di massima, ma non solo appaiono oscure le relative modalità operative, ma è addirittura dubbio se ciò possa concretamente funzionare.

Perché ciò a noi interessa?

Perché da tale confine aperto, ma tra territori ormai non più soggetti ad una legislazione omogenea (le regole europee), potrebbero in futuro entrare all’interno del nostro mercato unico alimenti o derrate agricole prodotti in Gran Bretagna o negli Stati Uniti (cui la prima sembra intenda aprire le proprie porte, anche per crearsi un’alternativa allo sbocco commerciale appena perso), rispettando una legislazione “al ribasso” rispetto ai nostri standard. Si deve quindi anche evitare di creare un “cavallo di Troia” per le merci americane, in un momento in cui il Presidente di tale paese (oltre ad indebolire i controlli sul settore finanziario, in precedenza introdotti dopo la crisi dei “sub-prime”, che circa dieci anni fa ha travolto l’economia mondiale) sta peraltro togliendo ogni vincolo a tutela dell’ambiente e sta conducendo una politica fortemente protezionistica, in particolar modo in favore dei prodotti agricoli statunitensi.

Valga ricordarsi che la malattia della “mucca pazza”, che mise a repentaglio la salute di milioni di consumatori e devastò il mercato europeo delle carni, si originò proprio nel Regno Unito.

Da tale evento, l’Unione Europea elaborò le proprie misure per la sicurezza alimentare, caraterizzate da un notevole rigore a tutela della salute umana.

Regole da cui in Regno Unito si è adesso liberato: se non si controlleranno alle frontiere le carni prodotte ivi prodotte, potranno giungere sulle nostre tavole prodotti meno sicuri di quelli europei, soggetti a standard qualitativi più severi.

Minaccia seria, sia per la salute umana che per la leale concorrenza tra imprese.

Insomma, si palesa il rischio che veniva paventato per l’accordo CETA, verosimilmente scongiurato con l’introduzione di alcuni controlli doganali … controlli che dovrebbero allora sussistere anche tra Irlanda del Nord e Gran Bretagna, così impedendo la citata “quadratura del cerchio”.

Pare altresì che il Primo ministro inglese abbia dato indicazioni alla propria squadra di negoziatori (Brexit negoziato futuro accordo) di “fare melina” sul problema di futuri controlli alle frontiere tra Unione Europea e Regno Unito (così l’agenzia Reuters, 23/2/2020).

Si evince dunque che il settore agro-alimentare è in prima linea in questa complessa trattativa. Vi sono altresì sentori che esso possa costituire una merce di scambio, per trovare a suo discapito equilibri in altri campi (il famoso quanto antico “do ut des”).

Veniamo allora al punto.

Gli eventuali futuri accordi tra Regno Unito ed Unione Europea (Brexit negoziato futuro accordo) vengono sì negoziati dalla Commissione Europea, ma – una volta raggiunti – vanno poi ratificati sia dal Parlamento Europeo e Consiglio Europeo, sia da tutti gli Stati membri.

L’Italia ha dunque piena possibilità di far valere la propria voce nonché di tutelare gli interessi nazionali in un contesto europeo, ma deve farlo sin dagli inizi. In altre parole, l’Italia deve avere ben chiaro quali sono i propri interessi, per influenzare – seguendo correttamente i canali istituzionali – l’andamento delle trattative, sì da partecipare al “gioco” negoziale come una consapevole protagonista e non subirlo passivamente.

In tal modo, se si troverà un accordo, esso sarà anche frutto della nostra volontà e delle nostre scelte.

Per contro, a “giochi fatti”, sarebbe veramente una politica di basso profilo mettersi poi di traverso e cercare di bloccare la ratifica dell’accordo stesso, assumendo atteggiamenti vittimistici (in piccolo, si è già di recente sperimentato tale approccio, quando è entrato in vigore il nuovo regolamento di Parlamento Europeo e Consiglio sui prodotti biologici, che i nostri rappresentanti governativi hanno votato a Bruxelles senza riserva alcuna ed hanno poi contestato parlando dal nostro paese …), magari solo utili al fine di una campagna elettorale nazionale.

Approccio peraltro pericoloso, poiché così malamente reagendo, si rischierebbe di provocare più danni che altro.

Negoziare con chiarezza di vedute e poi concludere un buon accordo (cosa completamente antitetica dal trovare un accordo a tutti i costi) avrebbe sicuramente un effetto positivo per l’economia nostra e quella di tutti gli altri Stati coinvolti: questo dunque l’obiettivo che – con la partecipazione delle associazioni di categoria – politici e funzionari italiani hanno da perseguire (Brexit negoziato futuro accordo).

Da subito!

Ma se ne parla?

Autorizzazione impianto vigneti 2020

Autorizzazione impianto vigneti 2020:  pubblicata una nuova guida di AGEA (circolare AGEA  n.11517 del  13 febbraio 2020).


Autorizzazione impianto vigneti 2020: la circolare AGEA n.11517 del 13 febbraio 2020 fa il punto sulla legislazione nazionale nonché sulle posizioni adottate dalle Regioni in merito ai criteri di priorità.

Essa sostituisce integralmente quella adottata per l’anno 2019 (circolare 12599 del 14 febbraio 2019), ma ne riprende sostanzialmente i contenuti, sopratutto per quanto concerne il rispetto dei criteri di priorità  e di ammissibilità (che vengono anzi ulteriormente salvaguardati) ed i limiti al traferimento tra Regioni.

Il quadro normativo italiano di riferimento resta quello portato dal D.M. 12272 del 15 dicembre 2015 , (come precisato dalla circolare MIPAAF 5852 del 25/10/2016), in ultimo modificato dal DM 935 del 13 febbraio 2018.

Il tutto in applicazione delle regole portate dalla OCM Unica (Regolamento UE 1308/2013, articoli 62 e seguenti, che a sua volta è stato oggetto di successive modificazioni), su cui si è espressa la Commissione UE con il parere (ARES 2017-5680223), secondo cui:

“l’affitto di superfici vitate, al solo scopo di procedere alla loro immediata estirpazione ed al reimpianto in località differente e molto distante, non può essere considerato una normale attività agricola, sopratutto se la superficie vitata oggetto di estirpazione non è gestita dall’affittuario per un certo lasso di tempo e se il contratto di affitto è rescisso dopo l’estirpazione”.

Di conseguenza, la circolare AGEA 11517 del 13 febbraio 2020 individua i seguenti principi:

 

3) Modifica della superficie per cui è concessa l’autorizzazione

Dal 2018 la modifica di una superficie rilasciata sulla base di un criterio di priorità individuato dalla Regione secondo l’articolo 7bis del DM n. 12272 del 15 dicembre 2015, è da intendersi analoga alla fattispecie riportata nell’articolo 7 paragrafo 3 per la quale trova applicazione l’articolo 14del medesimo decreto, ovvero, su domanda del richiedente, un impianto di viti può essere effettuato in una superficie dell’azienda diversa dalla superficie per cui è stata concessa l’autorizzazione solo nel caso in cui anche la nuova superficie rispetti i medesimi criteri di priorità di cui all’articolo 7bis per i quali è stata rilasciata l’autorizzazione.

 

4) Modifica della Regione/P.A. di riferimento

Il titolare dell’autorizzazione al reimpianto può richiedere, in modalità telematica, di variare la regione di riferimento al fine di poter utilizzare l’autorizzazione per impiantare un vigneto in una regione diversa da quella per cui ha ottenuto l’autorizzazione.

La modifica della regione di riferimento delle autorizzazioni per i nuovi impianti non è permessa se non vengono rispettati i criteri di ammissibilità e gli eventuali criteri di priorità previsti alla presentazione della domanda e che hanno determinato il rilascio dell’autorizzazione.

La richiesta di modifica della regione di riferimento delle autorizzazioni deve essere inoltrata alla regione dove si vuole effettuare l’impianto. La richiesta di modifica della regione di riferimento deve ricevere il nulla osta sia da parte della regione dove si vuole effettuare l’impianto, sia da parte della regione di origine.

Non è consentita la modifica della regione di riferimento di autorizzazioni per reimpianto anticipato. Al fine di contrastare fenomeni elusivi del principio della gratuità e non trasferibilità della titolarità delle autorizzazioni conseguenti ad atti di trasferimento temporaneo della conduzione, l’estirpazione dei vigneti effettuata prima dello scadere dei 6 anni dalla data di registrazione dell’atto di conduzione non dà origine ad autorizzazioni di reimpianto in una Regione differente da quella in cui è avvenuto l’estirpo. La presente disposizione non si applica agli atti di trasferimento temporaneo registrati prima dell’entrata in vigore del DM 935 del 13 febbraio2018 ….  Tale disposizione, per identità di ratio, è applicabile anche all’ipotesi di richiesta di trasferimento di una autorizzazione al reimpianto su terreni  in conduzione (mediante atti di trasferimento temporaneo) da meno di 6 anni in una regione differente.

 

Ribadendo un principio già fissato dalla precedente circolare del 2019, la circolare AGEA emessa per l’anno 2020 (circolare 11517 del 13 febbraio 2020) ha altresì sancito:

 

“A.Rilascio di autorizzazioni per nuovi impianti (annuale)

Il Ministero rende nota con decreto direttoriale entro il 30 settembre di ogni annola superficie nazionale che può essere oggetto di autorizzazioniper nuovi impianti nell’annualità successiva(da qui in avanti“superficie nazionale autorizzabile”).

Al fine di contrastare fenomeni elusivi del criterio di distribuzione proporzionale, anche nell’ambito dell’introduzione di criteri di priorità e del rispetto del miglioramento della competitività del settore nell’ambito delle singole Regioni, dal2017 sono state introdottele seguenti prescrizioni:

1) nelle domande di autorizzazione per nuovi impianti dovranno essere specificate la dimensione richiesta e la Regione nella quale si intende localizzare le superfici oggetto di richiesta. Le autorizzazioni per nuovi impianti concesse dalla campagna 2017 e 2018, quindi, non sono più trasferibili da una regione ad un’altra, in quanto ciò contrasta con il criterio di ammissibilità.

2) Il vigneto impiantato a seguito del rilascio dell’autorizzazione è mantenuto per un numero minimo di 5 anni, fatti salvi i casi di forza maggiore e/omotivi fitosanitari. Per tale motivo, l’estirpazione dei vigneti impiantati con autorizzazioni di nuovo impianto prima dello scadere dei 5 anni dalla data di impianto non dà origine ad autorizzazioni di reimpianto.”

 

Per quanto concerne i criteri di prorità adottati dalle singole Regioni (nel rispetto dei criteri fissati dalla normativa comunitaria), si veda l’allegato n.1 alla stessa circolare Agea del 2020.


Autorizzazioni impianto nuovi vigneti: normativa italiana


Regione Piemonte - Autorizzazione impianto vitigni


 

Accordo UE Giappone tutela DOP IGP

Gli accordi della UE con Cina e Giappone per la tutela di alcune DOP(Accordo UE-Giappone tutela DOP IGP)


Nell’anno 2019 l’Unione Europea ha concluso due accordi internazionali – uno con la Cina (Accordo UE-Cina tutela DOP IGP) e l’altro con il Giappone (Accordo UE-Giappone tutela DOP IGP) – che aggiungono nuovi nodi ad una rete di appositi trattati internazionali, pazientemente tessuta al fine di salvaguardare nel mondo le nostre DOP e IGP.

Cerchiamo innanzitutto di capire perché tali accordi sono indispensabili.

I nomi geografici, costituenti DOP ovvero IGP, sono protetti – quando ciò avviene, ma non è cosa scontata nel mondo! – per effetto di norme giuridiche, le quali esplicano però effetto unicamente sul territorio dell’ordinamento che le prevede. Va da sé che, più è ampio il territorio dell’ordinamento giuridico in questione, maggiore è l’estensione geografica delle zone ove vige siffatta tutela.

In buone sostanza, i confini nazionali rappresentano un grave ostacolo alla tutela in questione.

In Europa, tale problema è stato risolto – con notevole efficacia! – proprio grazie alle norme comunitarie: facendo discendere da esse la protezione di DOP e IGP, i confini nazionali all’interno dell’Unione non ledono minimamente la loro tutela. In altre parole, in virtù del diritto comunitario, una denominazione italiana è protetta nello stesso modo tanto in Italia, quanto in Francia, quanto in Germania, e così via in tutti gli altri Paesi dell’Unione.

La protezione, peraltro, è molto estesa, siccome essa vieta (art.103 del Regolamento 1308/2013/UE) – fra l’altro – di ledere le DOP e le IGP con «qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto o servizio è indicata o se il nome protetto è una traduzione, una trascrizione o una traslitterazione o è accompagnato da espressioni quali “genere”, “tipo”, “metodo”, “alla maniera”, “imitazione”, “gusto”, “come” o espressioni simili».

Superando i confini dell’Unione Europea, ciò viene meno.

L’unica possibilità, per mantenere una certa tutela, è che anche gli Stati non facenti parte dell’Unione riconoscano sul loro territorio una qualche protezione a DOP e IGP comunitarie.

E’ vero che gli Accordi TRIPS, conclusi in sede dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, comportano l’obbligo per tutti gli Stati aderenti di proteggere le denominazioni di origine (ma non le indicazioni geografiche!), ma è parimenti vero che detti accordi sono assai poco efficaci.

Per rimediare, non restava che stringere appositi trattati con i singoli paesi.

Per farlo è tuttavia necessario disporre di molto potere negoziale: forza che l’Italia – da sola – avrebbe in misura alquanto limitata.

A partire dagli anni ‘90, dunque, l’Unione Europea ha gradatamente concluso molteplici accordi in materia con molti altri Stati – fra cui: U.S.A., Canada, Sud Africa, Cile, Australia, … – per vedere protette sul loro territorio le nostre DOP e IGP, così intessendo una vera e propria “rete” in loro difesa.

In buona sostanza: è grazie all’Unione Europea che le nostre DOP e IGP vengono tutelate in gran parte del mondo con una certa effettività.

Siffatta “rete” presentava però due preoccupanti buchi, adesso in qualche modo tappati: mancavano infatti la Cina ed il Giappone.

Il tema era particolarmente cruciale per i produttori europei, giacché per noi le denominazioni di origine rappresentano un patrimonio economico assolutamente significativo. Tuttavia, negli ultimi anni anche la Cina – volendo entrare sempre più nel mondo del commercio internazionale – ha iniziato a riconoscere alcune denominazioni di origine del proprio territorio (la prima riguarda le lingue d’oca).

E’ però errato pensare che tale complesso sistema di protezione sia omogeneo.

Ad esempio, l’Accordo tra UE ed USA verte esclusivamente sul commercio del vino: esso pertanto tutela in modo abbastanza esteso le DOP europee relative a tale settore, ma esclude quelle dei prodotti alimentari. Lo stesso dicasi per i trattati con l’Australia, la Repubblica Sudafricana ed il Cile.

Per contro, il recente Accordo con la Cina concerne anche le DOP alimentari. Tuttavia, le DOP europee che ne beneficiano – vedendo così riservata sia la loro espressione in caratteri latini che la loro traslitterazione in ideogrammi cinesi – sono al momento relativamente poche, e cioè solo un centinaio, di cui ben 26 italiane.

Ecco quali sono queste ultime: Aceto Balsamico di Modena, Asti, Barbaresco, Bardolino Superiore, Barolo, Brachetto d’Acqui, Brunello di Montalcino, Chianti, Conegliano-Valdobbiadene Prosecco, Dolcetto d’Alba, Franciacorta, Montepulciano d’Abruzzo, Soave, Toscano/Toscana, Vino Nobile di Montepulciano (per quanto concerne i vini); Grappa (in relazione ai liquori); Asiago, Bresaola della Valtellina, Gorgonzola, Grana Padano, Mozzarella di Bufala Campana, Parmigiano Reggiano, Pecorino Romano, Prosciutto di Parma, Prosciutto San Daniele, Taleggio (DOP alimentari).

Di certo, dette DOP sono tra le nostre più significative, il che è un gran successo. Però il loro numero è comunque modesto, per cui è da augurarsi che l’attuale accordo con la Cina rappresenti un primo passo per una tutela numericamente più diffusa. In effetti, nell’Unione Europea sono tutelate ben 573 DOP e 248 IGP italiane (di cui, rispettivamente, 167 e 130 agroalimentari nonché 406 e 118 per i vini)!

Anche il recente ampio accordo commerciale tra Unione Europea e Giappone, che tra le sue molteplici pattuizioni prevede pure la protezione delle rispettive DOP, non rappresenta una misura di loro generale salvaguardia, essendo limitato il numero delle denominazioni di origine che ne beneficiano.

Per quanto concerne le DOP italiane, il Giappone ha accettato di proteggere sul proprio territorio – oltre a tutte quelle oggetto dell’accordo tra UE e Cina – anche i seguenti ulteriori nomi geografici o di prodotti: Sicilia, Soave, Valpolicella, Vernaccia di San Gimignano, Lambrusco di Sorbara, Lambrusco Gasparossa di Castelvetro, Marsala, Montepulciano di Abruzzo, Campania, Bolgheri / Bolgheri Sassicaia, Bardolino / Bardolino Superiore (con riferimento ai vini); Fontina, Mela Alto Adige / Südtiroler Apfel, Mortadella Bologna, Pecorino Toscano, Prosciutto Toscano, Provolone Valpadana, Taleggio, Zampone Modena.

Inoltre, sia l’accordo con la Cina sia quello con il Giappone – al pari di molti altri accordi internazionali – esplicano i loro effetti solo in favore dei citati nomi geografici, lasciando invece scoperte le relative sotto-zone ed indicazioni geografiche aggiuntive, che nemmeno sono tutelate (proprio perché sono cosa diversa dalle denominazioni), ma semplicemente consentite dalla legislazione dell’Unione Europea sull’organizzazione comune dei mercati e che trovano il loro fondamento nel Testo Unico Vino del nostro paese (il che implica una protezione molto più limitata e flebile).

Pure le menzioni tradizionali connesse alle denominazioni coperte dai nuovi accordi con Cina e Giappone non trovano protezione, ma ciò vale anche per molti altri accordi internazionali sul commercio del vino conclusi dalla UE (fanno eccezione quelli con l’Australia ed il Cile), mentre all’interno della Unione esse sono salvaguardate. Anzi, il relativo livello di protezione è aumentato con l’adozione del regolamento della Commissione 33/2019, che ha sostanzialmente assimilato la portata della protezione per le menzioni a quella per le dominazioni (fatta salva la differenza che le prime sono tutelate solo nella versione linguistica con cui sono registrate, mentre per le seconde la tutela copre anche la loro espressione nelle altre lingue dell’Unione).

Insomma, questi due nuovi accordi internazionali – che vanno sicuramente apprezzati e ben accolti! – iniziano forse a connotare una sorta di differenziazione all’interno delle stesse DOP e IGP, sostanzialmente ricollegabile al peso economico delle rispettive produzioni.

Chi realizza quelle attualmente escluse dalla protezione, dovrà quindi prestare attenzione all’evoluzione della situazione, per capire se in futuro essa si consoliderà alle restrittive attuali condizioni ovvero si assisterà ad una graduale estensione del campo di operatività della tutela di DOP e IGP europee in Cina e Giappone. La questione appare particolarmente delicata per quei produttori che puntano a vedere proprio su tali importanti mercati.


Circolare Agenzia dogane su accordo UE - Giappone


Sempre a fine dell’anno 2019, l’Unione Europea ha compiuto ulteriori passi per perfezionare la propria adesione al cosiddetto “Accordo di Lisbona” (così come modificato da quello successivo di Ginevra), che – in sede WIPO (World Intellectual Property Organization) – ha come obiettivo la tutela sia delle denominazioni di origine, sia delle indicazioni geografiche.

Ciò consente di rafforzare la tutela di DOP e IGP dell’Unione Europea nei seguenti paesi, magari meno rilevanti sul piano dell’export dei nostri vini, ma che – in assenza di tale trattato – avrebbero potuto costituire un “porto sicuro” per eventuali operazioni di contraffazione: Albania, Algeria, Bosnia ed Herzegovina, Burkina Faso, Congo, Costa Rica, Cuba, Repubblica Dominicana, Korea del Nord, Repubblica Dominicana, Gabon, Georgia, Haiti, Iran, Israele, Mexico, Montenegro, Nicaragua, Macedonia del Nord, Peru, Moldavia, Togo e Tunisia.

Accordo UE-Cina tutela DOP IGP

Gli accordi della UE con Cina e Giappone per la tutela di alcune DOP(Accordo UE-Cina tutela DOP IGP)


Nell’anno 2019 l’Unione Europea ha concluso due accordi internazionali – uno con la Cina (Accordo UE-Cina tutela DOP IGP) e l’altro con il Giappone (Accordo UE-Giappone tutela DOP IGP) – che aggiungono nuovi nodi ad una rete di appositi trattati internazionali, pazientemente tessuta al fine di salvaguardare nel mondo le nostre DOP e IGP.

Cerchiamo innanzitutto di capire perché tali accordi sono indispensabili.

I nomi geografici, costituenti DOP ovvero IGP, sono protetti – quando ciò avviene, ma non è cosa scontata nel mondo! – per effetto di norme giuridiche, le quali esplicano però effetto unicamente sul territorio dell’ordinamento che le prevede. Va da sé che, più è ampio il territorio dell’ordinamento giuridico in questione, maggiore è l’estensione geografica delle zone ove vige siffatta tutela.

In buone sostanza, i confini nazionali rappresentano un grave ostacolo alla tutela in questione.

In Europa, tale problema è stato risolto – con notevole efficacia! – proprio grazie alle norme comunitarie: facendo discendere da esse la protezione di DOP e IGP, i confini nazionali all’interno dell’Unione non ledono minimamente la loro tutela. In altre parole, in virtù del diritto comunitario, una denominazione italiana è protetta nello stesso modo tanto in Italia, quanto in Francia, quanto in Germania, e così via in tutti gli altri Paesi dell’Unione.

La protezione, peraltro, è molto estesa, siccome essa vieta (art.103 del Regolamento 1308/2013/UE) – fra l’altro – di ledere le DOP e le IGP con «qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto o servizio è indicata o se il nome protetto è una traduzione, una trascrizione o una traslitterazione o è accompagnato da espressioni quali “genere”, “tipo”, “metodo”, “alla maniera”, “imitazione”, “gusto”, “come” o espressioni simili».

Superando i confini dell’Unione Europea, ciò viene meno.

L’unica possibilità, per mantenere una certa tutela, è che anche gli Stati non facenti parte dell’Unione riconoscano sul loro territorio una qualche protezione a DOP e IGP comunitarie.

E’ vero che gli Accordi TRIPS, conclusi in sede dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, comportano l’obbligo per tutti gli Stati aderenti di proteggere le denominazioni di origine (ma non le indicazioni geografiche!), ma è parimenti vero che detti accordi sono assai poco efficaci.

Per rimediare, non restava che stringere appositi trattati con i singoli paesi.

Per farlo è tuttavia necessario disporre di molto potere negoziale: forza che l’Italia – da sola – avrebbe in misura alquanto limitata.

A partire dagli anni ‘90, dunque, l’Unione Europea ha gradatamente concluso molteplici accordi in materia con molti altri Stati – fra cui: U.S.A., Canada, Sud Africa, Cile, Australia, … – per vedere protette sul loro territorio le nostre DOP e IGP, così intessendo una vera e propria “rete” in loro difesa.

In buona sostanza: è grazie all’Unione Europea che le nostre DOP e IGP vengono tutelate in gran parte del mondo con una certa effettività.

Siffatta “rete” presentava però due preoccupanti buchi, adesso in qualche modo tappati: mancavano infatti la Cina ed il Giappone.

Il tema era particolarmente cruciale per i produttori europei, giacché per noi le denominazioni di origine rappresentano un patrimonio economico assolutamente significativo. Tuttavia, negli ultimi anni anche la Cina – volendo entrare sempre più nel mondo del commercio internazionale – ha iniziato a riconoscere alcune denominazioni di origine del proprio territorio (la prima riguarda le lingue d’oca).

E’ però errato pensare che tale complesso sistema di protezione sia omogeneo.

Ad esempio, l’Accordo tra UE ed USA verte esclusivamente sul commercio del vino: esso pertanto tutela in modo abbastanza esteso le DOP europee relative a tale settore, ma esclude quelle dei prodotti alimentari. Lo stesso dicasi per i trattati con l’Australia, la Repubblica Sudafricana ed il Cile.

Per contro, il recente Accordo con la Cina concerne anche le DOP alimentari. Tuttavia, le DOP europee che ne beneficiano – vedendo così riservata sia la loro espressione in caratteri latini che la loro traslitterazione in ideogrammi cinesi – sono al momento relativamente poche, e cioè solo un centinaio, di cui ben 26 italiane.

Ecco quali sono queste ultime: Aceto Balsamico di Modena, Asti, Barbaresco, Bardolino Superiore, Barolo, Brachetto d’Acqui, Brunello di Montalcino, Chianti, Conegliano-Valdobbiadene Prosecco, Dolcetto d’Alba, Franciacorta, Montepulciano d’Abruzzo, Soave, Toscano/Toscana, Vino Nobile di Montepulciano (per quanto concerne i vini); Grappa (in relazione ai liquori); Asiago, Bresaola della Valtellina, Gorgonzola, Grana Padano, Mozzarella di Bufala Campana, Parmigiano Reggiano, Pecorino Romano, Prosciutto di Parma, Prosciutto San Daniele, Taleggio (DOP alimentari).

Di certo, dette DOP sono tra le nostre più significative, il che è un gran successo. Però il loro numero è comunque modesto, per cui è da augurarsi che l’attuale accordo con la Cina rappresenti un primo passo per una tutela numericamente più diffusa. In effetti, nell’Unione Europea sono tutelate ben 573 DOP e 248 IGP italiane (di cui, rispettivamente, 167 e 130 agroalimentari nonché 406 e 118 per i vini)!

Anche il recente ampio accordo commerciale tra Unione Europea e Giappone, che tra le sue molteplici pattuizioni prevede pure la protezione delle rispettive DOP, non rappresenta una misura di loro generale salvaguardia, essendo limitato il numero delle denominazioni di origine che ne beneficiano.

Per quanto concerne le DOP italiane, il Giappone ha accettato di proteggere sul proprio territorio – oltre a tutte quelle oggetto dell’accordo tra UE e Cina – anche i seguenti ulteriori nomi geografici o di prodotti: Sicilia, Soave, Valpolicella, Vernaccia di San Gimignano, Lambrusco di Sorbara, Lambrusco Gasparossa di Castelvetro, Marsala, Montepulciano di Abruzzo, Campania, Bolgheri / Bolgheri Sassicaia, Bardolino / Bardolino Superiore (con riferimento ai vini); Fontina, Mela Alto Adige / Südtiroler Apfel, Mortadella Bologna, Pecorino Toscano, Prosciutto Toscano, Provolone Valpadana, Taleggio, Zampone Modena.

Inoltre, sia l’accordo con la Cina sia quello con il Giappone – al pari di molti altri accordi internazionali – esplicano i loro effetti solo in favore dei citati nomi geografici, lasciando invece scoperte le relative sotto-zone ed indicazioni geografiche aggiuntive, che nemmeno sono tutelate (proprio perché sono cosa diversa dalle denominazioni), ma semplicemente consentite dalla legislazione dell’Unione Europea sull’organizzazione comune dei mercati e che trovano il loro fondamento nel Testo Unico Vino del nostro paese (il che implica una protezione molto più limitata e flebile).

Pure le menzioni tradizionali connesse alle denominazioni coperte dai nuovi accordi con Cina e Giappone non trovano protezione, ma ciò vale anche per molti altri accordi internazionali sul commercio del vino conclusi dalla UE (fanno eccezione quelli con l’Australia ed il Cile), mentre all’interno della Unione esse sono salvaguardate. Anzi, il relativo livello di protezione è aumentato con l’adozione del regolamento della Commissione 33/2019, che ha sostanzialmente assimilato la portata della protezione per le menzioni a quella per le dominazioni (fatta salva la differenza che le prime sono tutelate solo nella versione linguistica con cui sono registrate, mentre per le seconde la tutela copre anche la loro espressione nelle altre lingue dell’Unione).

Insomma, questi due nuovi accordi internazionali – che vanno sicuramente apprezzati e ben accolti! – iniziano forse a connotare una sorta di differenziazione all’interno delle stesse DOP e IGP, sostanzialmente ricollegabile al peso economico delle rispettive produzioni.

Chi realizza quelle attualmente escluse dalla protezione, dovrà quindi prestare attenzione all’evoluzione della situazione, per capire se in futuro essa si consoliderà alle restrittive attuali condizioni ovvero si assisterà ad una graduale estensione del campo di operatività della tutela di DOP e IGP europee in Cina e Giappone. La questione appare particolarmente delicata per quei produttori che puntano a vedere proprio su tali importanti mercati.


Circolare Agenzia dogane su accordo UE - Giappone


Sempre a fine dell’anno 2019, l’Unione Europea ha compiuto ulteriori passi per perfezionare la propria adesione al cosiddetto “Accordo di Lisbona” (così come modificato da quello successivo di Ginevra), che – in sede WIPO (World Intellectual Property Organization) – ha come obiettivo la tutela sia delle denominazioni di origine, sia delle indicazioni geografiche.

Ciò consente di rafforzare la tutela di DOP e IGP dell’Unione Europea nei seguenti paesi, magari meno rilevanti sul piano dell’export dei nostri vini, ma che – in assenza di tale trattato – avrebbero potuto costituire un “porto sicuro” per eventuali operazioni di contraffazione: Albania, Algeria, Bosnia ed Herzegovina, Burkina Faso, Congo, Costa Rica, Cuba, Repubblica Dominicana, Korea del Nord, Repubblica Dominicana, Gabon, Georgia, Haiti, Iran, Israele, Mexico, Montenegro, Nicaragua, Macedonia del Nord, Peru, Moldavia, Togo e Tunisia.


Subentro eredi affittuario fondo agricolo

Il subentro eredi affittuario fondo agricolo.


Il subentro degli eredi dell’affittuario nella conduzione del fondo agricolo (subentro eredi affittuario fondo agricolo) rappresenta un caso sul quale risulta ad oggi difficile dare una risposta univoca, sussistendo teorie dottrinali e pronunce giurisprudenziali contrastanti.

Proviamo comunque a fare chiarezza almeno sotto l’aspetto normativo di riferimento.

Ovviamente siamo in tema di affitto di fondi rustici. La materia risulta quindi disciplinata Legge n.203 del 1982, che stabilisce le norme in materia di contratti agrari, tra cui quello di  affitto.

La fattispecie da Lei rappresentata trova chiaro riferimento all’art.49, primo ed ultimo comma della citata legge. Il primo comma afferma che: “Nel caso di morte del proprietario di fondi rustici condotti o coltivati direttamente da lui o dai suoi familiari, quelli tra gli eredi che, al momento dell’apertura della successione, risultino avere esercitato e continuino ad esercitare su tali fondi attività agricola, in qualità di imprenditori a titolo principale […] o di coltivatori diretti, hanno diritto a continuare nella conduzione o coltivazione dei fondi stessi […].” L’ultimo comma, invece, afferma che:  “In caso di morte dell’affittuario il contratto si scioglie alla fine dell’annata agraria in corso, salvo che tra gli eredi vi sia persona che abbia esercitato e continui ad esercitare attività agricola in qualità di coltivatore diretto o di imprenditore a titolo principale, come previsto dal primo comma”.

Come si può ben notare, il primo comma fa riferimento alle ipotesi di subentro degli eredi nella conduzione del fondo in caso di morte del proprietario. L’ultimo comma (che è quello che da risposta al Suo quesito), invece, fa riferimento al caso di morte dell’affittuario. Seppur i predetti commi mirino a regolare ipotesi differenziate, debbono in ogni caso essere trattati congiuntamente per via del rimando che proprio l’ultimo comma fa nei confronti del primo (si legge, infatti, al fondo dell’ultimo comma, “… come previsto dal primo comma”).

Identificato il quadro normativo di riferimento, proviamo ora ad addentrarci nel merito della questione.

Primo aspetto su cui focalizzare l’attenzione  risulta l’attuale possesso e la conduzione dei fondi già condotti in affitto dal defunto padre. L’art.49, ultimo comma, precisa innanzitutto che il contratto di affitto non si soglie immediatamente con la morte dell’affittuario, bensì alla fine dell’annata agraria in corso. Ciò sta a significare che il contratto continuerà ad essere efficace nei confronti degli eredi i quali potranno legittimamente condurre i fondi sino alla fine dell’annata agraria in corso e quindi sino all’11 Novembre 2019.

Più articolato e complesso è invece capire se vi siano, e quali siano, i requisiti affinché il contratto di affitto continui con l’erede o gli eredi del defunto affittuario sino alla sua naturale scadenza. La norma prevede detta eventualità solamente se tra gli eredi vi sia persona che abbia esercitato e continui ad esercitare attività agricola in qualità di coltivatore diretto. Il tenore letterale di detto inciso non lascerebbe trasparire, quindi, alcun dubbio sul fatto che, affinché l’erede subentri nel contratto di affitto, è sufficiente aver esercitato (prima della morte del de cuius) e continuare ad esercitare (dopo la sua morte) attività agricola, non necessariamente connessa o attinente a quella del dante causa e per di più anche su altri fondi rispetto a quelli condotti dall’affittuario deceduto. In senso conforme si è espressa la Cassazione con sentenza n.7468/1986 che, seppur risalente, individua (a parere di chi scrive) la vera portata applicativa della norma e del comma in esame.

Di diverso avviso è stato, invece, un recente e diverso orientamento espresso dalla Cassazione (sentenza n.2254/2013), secondo cui se l’erede intende subentrare nel contratto di affitto, egli  deve dimostrare due cose: non solo di essere coltivatore diretto, ma altresì di aver esercitato e continuare ad esercitare, al momento dell’apertura della successione, attività agricola sugli stessi terreni coltivati e condotti in affitto dal de cuius. In base a quest’ultima decisione della Cassazione, infatti, l’inciso “…come previsto dal primo comma” richiamerebbe la necessità, anche per l’ultimo comma, non solo dei requisiti della diretto coltivazione in capo all’erede, bensì anche della conduzione degli stessi fondi oggetto di subentro.

In sintesi: sulla scorta del più recente orientamento della Cassazione, solo l’erede che sia stato nella conduzione degli stessi fondi già condotti dal de cuius (prima della sua morte) ha il diritto di subentrare nel contratto di affitto.

Ciò contraddice la propria più datata giurisprudenza, fondata sulla circostanza che l’ultimo comma dell’art.49 citato non fornisce detta precisazione, dicendo semplicemente che l’erede deve “esercitare attività agricola in qualità di coltivatore diretto o di imprenditore a titolo principale” e, quindi,  non richiede affatto che detta attività sia svolta proprio sui terreni oggetto di affitto.

Per cui oggi solamente un intervento della Cassazione a Sezioni Unite potrebbe oggi dirimere l’evidenziato contrasto.

Nel frattempo gli operatori economici sono lasciati nell’incertezza, a loro discapito.

 

Passaggio generazionale convegno

CONVEGNO

“Il passaggio generazionale nelle aziende vitivinicole:
strumenti, rischi ed opportunità tra gestione della struttura agricola,
pianificazione successoria e tutela degli assetti proprietari”

 

 

 

Sabato 26 ottobre 2019
Enoteca Regionale piemontese “Cavour”
Castello di Grinzane Cavour – CN
Sito UNESCO



Il passaggio generazionale è processo fisiologico inevitabile e particolarmente delicato per le tante aziende del settore vitivinicolo a gestione familiare, dove trend di mercato ed elevato valore dei vigneti di pregio portano a valutare strumenti alternativi o complementari a quelli tradizionali, per pianificare adeguatamente la transizione e garantire continuità aziendale di prodotto e
marchio nel prossimo futuro.

Una giornata di studio e confronto tra professionisti ed operatori del settore per analizzare le principali problematiche, opportunità e soluzioni.



Programma

 

9:00 Registrazione partecipanti

9:15 Saluti istituzionali
Alberto Cirio (Presidente Regione Piemonte)

9:30 Presentazione della giornata di studio
Roberto Bodrito (Presidente Enoteca Regionale Piemontese “Cavour”)
Stefano Dindo (Presidente UGIVI)


Sessione del mattino


9:45 – Prima parte

Passaggio generazionale: profili giuridici

Introduce: Giancarlo Girolami (Presidente del Tribunale di Asti)
Modera: Ermenegildo Mario Appiano (Avvocato in Alba e Torino, Vice-Presidente UGIVI, Professore invitato nell’Università Salesiana di Torino)


Imprese vitivinicole – stato dell’arte e futuro contesto competitivo
Gabriele Barbaresco (AD Ufficio Studi Mediobanca)


Il passaggio generazionale in Langa: il contesto socio-economico
Luciano Bertello (Studioso del Territorio)


Il passaggio generazionale delle strutture agricole. Profili civilistici
Andrea Ferrari (Avvocato in Alba)


Assetti proprietari e circolazione dei fondi vitivinicoli
Marco Didier (Avvocato in Alba)


11:00 – Seconda parte

Prepararsi al passaggio generazionale: profili economici

Modera: Floriana Risuglia (Avvocato in Roma e Segretaria UGIVI)


Ruolo del notaio: pianificazione successoria e patto di famiglia
Andrea Ganelli (Notaio in Torino)


Ruolo dell’istituto bancario nell’agevolare il passaggio generazionale
Enzo Cazzullo (Banca d’Alba)


Ruolo del private banker: soluzioni per trasmettere il patrimonio familiare aziendale
Vincenzo Volpe (Mediobanca)


Sessione pomeridiana


14:00 – Prima parte

Strumenti e soluzioni a disposizione dell’imprenditore

Modera: Oreste Calliano (Professore nell’Università di Torino, Avvocato e membro del Direttivo UGIVI)


Strutturare e gestire il passaggio generazionale: trust, holding di famiglia, family buy-out e operazioni di M&A
Diego Saluzzo (Avvocato in Torino, Direttivo UGIVI)
Gabriele Varrasi (Professore a contratto nell’Università di Torino, Avvocato in Torino)


Il ricorso ai minibond nelle aziende vitivinicole
Massimiliano Elia (Avvocato in Torino)


Gavi La Scolca: un case history di successo
Chiara Soldati (Azienda La Scolca)


16:00 – Seconda parte

Tavola Rotonda

Passaggio generazione e mondo del vino: tra continuità ed innovazione

Modera: Stefano Dindo (Avvocato in Verona, Presidente UGIVI)


Passaggio generazionale e mondo del vino: contesto italiano e esperienze estere
Gelasio Gaetani d’Aragona Lovatelli (Scrittore e giornalista)


Le imprese vitivinicole familiari in Piemonte
Claudio Conterno (CIA Cuneo)
Fabrizio Rapallino (Coldiretti Cuneo)
Gianluca Demaria (ConfAgricoltura)


Passaggio generazionale e vino in Italia: saper salvaguardare le diversità
Stefano Colmo (Terra Madre – Former Secretary)


Promozione e valorizzazione dei vini e delle specialità agroalimentari in Europa
Dino Icardi (Sevinova)



Durante il Convegno verrà presentato il volume

“Il paesaggio vitivinicolo come patrimonio europeo.

Aspetti gius-economici: geografici, ambientali, contrattuali, enoturistici e di marketing”

 



In collaborazione con:



 

 

Castello di Grinzane Cavour, sede UGIVI Piemonte e Valle d'Aosta