Conflitto denominazioni origine menzioni marchi caso Amarone Arte Tribunale Venezia

La tutela delle denominazioni di origine e delle menzioni tradizionali comporta limitazioni all’uso dei nomi così protetti, che non possono essere usati come marchi (Conflitto denominazioni origine menzioni marchi caso Amarone Arte Tribunale Venezia).


Nel settembre 2017 il Tribunale di Venezia ha reso un’importante sentenza in materia, ritenendo che sia vietato utilizzare una menzione tradizionale “Amarone” quale componente di un marchio “Famiglie dell’Amarone d’Arte“, giacché ciò – per il carattere laudativo del termine “Arte” – crea indebite distinzioni tra i produttori della denominazione di origine (“Amarone”) cui è collegata la menzione stessa, consentendo che agli occhi dei consumatori appaiano più meritevoli e capaci i produttori del vino DOCG AMARONE che si fregiano di detto marchio rispetto a quelli che non avrebbero tale possibilità (Conflitto denominazioni origine menzioni marchi caso Amarone Arte Tribunale Venezia).

Di conseguenza, il citato marchio è nullo ed il suo utilizzo rappresenta altresì un atto di concorrenza sleale.

Il conflitto tra denominazioni di origine e marchi nonché quello tra questi ultimi e le menzioni tradizinali è regolato dalla normativa comunitaria (rispettivamente articoli 103 e 113 dela regolamento sulla OCM Unica nonché art.40 e 41 del suo regolamento attuativo 607/2009)

A prescindere dalle questioni giudiche (si vedrà se la decisione del Tribunale di Venezia diverrà definitiva), il caso pone un rilevante problema di ordine “politico”.

In effetti, le imprese che avevano registrato il marchio (“Le famiglie dell’Amarone d’Arte“) ritenuto nullo dal Tribunale, poichè in conflito con la menzione “Amarone” della DOP “Valpollicella”, avevano motivato la propria condotta nel seguente modo:

“la produzione di Amarone (“A.”) nel tempo era stata fatta oggetto di una crescita disequilibrata, fenomeno che il Consorzio non aveva efficacemente contrastato assumendo anzi un atteggiamento “contraddittorio” sfociato in particolare nel 2009 in un aumento della superficie viticola per poi abbassare la percentuale di cernita per le uve a riposo, il tutto a discapito dei vigneti altamente vocati che avevano pagato il prezzo legato alla percentuale di cernita ed erano stati altresì “affiancati” a nuovi vigneti entrati in produzione e destinati, anch’essi, alla produzione di Amarone (politica poi proseguita nel 2013 con la proposta di modifica dell’art. 4 del disciplinare di produzione dell’Amarone , ossia con proposta di estendere, ai fini dell’idoneità alla produzione del vino Amarone Valpollicella, l’area di produzione anche ai vigneti piantati su terreni freschi, situati in pianura o nei fondovalle)”.

In sostanza, se detti argomenti trovano un effettivo riscontro nella realtà (essi non siano cioè meri assunti difensivi in sede processuale), emerge il conflitto tra due esisgenze contrapposte:

  • da un canto, ampliare i territori di produzione delle uve di una denominazione di successo, in modo da soddisfare la crescente domanda di mercato (il vino è un prodotto economico, che va venduto, se si vuole ottenere reddito);
  • dall’altro, salvaguardare la tipicità del vino stesso, e cioè quelle sue “qualità e le caratteristiche del prodotto sono dovute essenzialmente o esclusivamente a un particolare ambiente geografico e ai suoi fattori naturali e umani” (art.93, comma 1, lettera a, punto i, della Regolamento stesso sulla OCM Unica), che rappresentano la ragione stessa della tutela comunitaria in favore delle DOP!

In altre parole, se si estende il territorio di produzione in modo irragionevole, consentendo l’uso di uve provenienti da vigneti collocati in zone menifestamente poco idonee (quali i terreni situati in pianura o nel fondovalle), la bontà del vino così ottenuto  – estremizzando –  sarà maggiormente frutto delle tecniche di cantina sapientemene usate anziché della bontà dell’uva da cui è ottentuo.

A questo punto, allora, è proprio il consumatore a patire infine un pregiudizio ai suoi interessi economici (tutelati  dall’art.80, comma 3, lettera c, nonché dall’art.92, comma 2, lettera a, del medesimo Regolamento sulla OCM Unica).

Inoltre, ciò mina la credibilità stessa della DOP: divenendo più lasso il legame con il territorio di produzione delle uve, il baricentro si sposta sulle pratiche  di cantina, che in ultima analisi altro non sono che tecniche di produzione industriale attuabili ovunque nel mondo!

Si pensi allora al caso del Prosecco, un vero e proprio fenome di mercato, che sta  collezionando ripetuti successi nelle vendite internazionali.

Originariamente,  esisteva  il vino veneto  DOC “Conegliano” , che già compariva come oggetto di un accoro  Italo-Francese per la reciproca protezione di alcune denominazioni di origine, tra cui “Prosecco di Conegliano”,  da noi ratificato con legge 18 luglio 1949, n.766.

Il disciplinare di tale vino venne poi approvato con D.M. 2 aprile 1969.

Successivamente, “Prosecco” divenne una dizione tradizionale per i vini a denominazione “Conegliano/Valdobbiadene”.

Ancor dopo, nell’anno 2009, sull’onda del crescente successo di mercato del “Prosecco”, venne  istituita la relativa DOP, il cui territorio comprende le province di Belluno, Gorizia, Padova, Pordenone, Treviso, Trieste, Udine, Venezia e Vicenza.

Nel contempo, però, “Conegliano/Valdobbiadene – Prosecco” venne trasformata in una DOCG, intesa come sottozona della DOP “Prosecco”. Lo stesso accadde per “Colli Asolani – Prosecco”

In tale caso, il passaggio di “Conegliano/Valdobbiadene – Prosecco” e “Colli Asolani – Prosecco”a DOCG rappresenta dunque  lo strumento di garanzia e trasparenza in favore del consumatore, volto a segnalare la differenziazione sia della provenienza di  tali vini rispetto a quelli della più ampia DOC Prosecco, sia il differente tenore organolettico.

Questa strada, però, non pare percorribile per l’Amarone, poiché esso già oggi è una DOCG.

Ciò spiega allora perché sia nato  il conflitto   su cui è stato chiamato a decidere il Tribunale di Venezia, il quale – nell’interesse di tutti – va risolto non solo sul piano giuridico.

Si impone infatti di evitare che una punta di diamante della produzione vinicola italiana rappresenti  l’incoerenza capace di minare la credibilità dell’intero sistema delle nostre denominazioni di origine.


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Ordinario di Venezia, Sezione Specializzata in materia di Impresa, in persona dei magistrati

Dott. GUZZO Liliana – presidente rel ed est.

Dott ZANON Gabriella – giudice

Dott. GASPARINI Martina – giudice

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa rg 4350 2015 promossa da

  • CONSORZIO PER LA TUTELA VALPOLLICELLA

(…)

– attori

.

contro

  • LE FAMIGLIE DELL’AMARONE D’ARTE  SOC. CONS. A R.L

(…)

– convenuti

.

oggetto:  nullità marchio, denominazione, concorrenza sleale interferente

 

MOTIVAZIONE

 

Il Consorzio per la Tutela del Valpollicella (T.V). qualificatosi quale “Consorzio riconosciuto ai sensi dell’art. 17 comma 1 e 4 D.Lgs. n. 61 del 2010 del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali Direzione Generale per la promozione della qualità agroalimentare, con riferimento alle d.o.c. “V.” e “V.R.” nonché alle d.o.c.g. “A.V.” e “R.V.” ed altresì i seguenti attori (di seguiti denominali “produttori”) e (…) formulando da ultimo le conclusioni trascritte in premessa.

A sostegno delle proprie domande gli attori hanno in sintesi esposto nei propri atti che :

– In sede nazionale, la menzione tradizionale “AMARONE VALPOLLICELLA (A.V.)”, già riconosciuta come d.o.c. con D.P.R. 21 agosto 1968, è stata riconosciuta come d.o.c.g. con D.M. 24 marzo 2010 del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali che ha altresì approvato il vigente disciplinare di produzione che all’art. 7 comma 1 fa divieto che alla menzione tradizionale sia aggiunta “qualsiasi specificazione diversa da quelle previste dal presente disciplinare di produzione ivi compresi gli aggettivi “extra” fine scelto e similari”

– In sede europea la menzione tradizionale “A.V.” è stata come tale riconosciuta dal Reg. CE n. 607/2009 (approvato dalia Commissione ti 14.07.2009 ed entrato in vigore l’01.08.2009), ti cui all. XII, parte B, la descrive come “Menzione storica connessa esclusivamente al metodo di produzione della denominazione “Valpollicella” (“V”). È impiegata sin dall’antichità per identificare il luogo di origine di questo vino, ottenuto da uve appassite con un metodo di produzione specifico basato sulla completa fermentazione degli zuccheri: si spiega così l’origine del termine “Amarone” (“A.”). Si tratta di una menzione del tutto particolare e ampiamente conosciuta, in grado di identificare da sola il prodotto”; eguale descrizione si ritrova nella banca dati “E-Bacchus” gestita dalia Commissione, Direzione Generale per l’agricoltura e lo sviluppo rurale.

– Il Consorzio, costituito nel 1970 per la tutela delle denominazioni protette “VALPOLLICELLA” e “RIPASSO VALPOLLICELLA”, tutela dal 2000 anche le denominazioni “V.R.” e “A.V.” ed attualmente rappresenta circa l’80% di ciascuna delle categorie che compongono la filiera vinicola (viticoltori, vinificatori ed imbottigliatori) inerente alle quattro denominazioni tutelate,

– con D.M. 25 gennaio 2013, il Ministero ha riconosciuto il Consorzio incaricandolo di svolgere per la durata di tre anni le funzioni di tutela previste dall’art. 17, comma 1 e 4, D.Lgs. n. 61 del 2010, con riferimento alle d.oc. V.” e V.R.” nonché alle d.o.c.g “A.V.” e R.V.

– sia gli attori “produttori” che i convenuti soci della società consortile convenuta (di seguiti denominati “soci”) sono inseriti in forza della vigente normativa, nel sistema di controlli della d.o.c.g “A.V.” il cui organismo di certificazione istituzionale è S. s.p.a.

Gli attori hanno poi affermato che i convenuti (denominati soci) , rappresentanti all’inarca il 5% dei viticoltori e vinificatori inseriti nel sistema di controlli della d.o.c.g “A.V.”, avevano costituito in data 18.06.2009 ( ad eccezione di (…) S. s. che era entrata a far parte della società consortile nel 2015) una società consortile a responsabilità limitata, attribuendo ad essa la denominazione sociale  “Le Famiglie dell’Amarone d’Arte”  (“L.F.”) nell’intento di creare un soggetto collettivo che potesse sotto certi aspetti competere con il Consorzio attore.

Tale società consortile includeva nell’oggetto sociale le seguenti attività “tutela del vino denominato  “AMARONE” (“A.”) come prodotto tipico del territorio veronese della V. ..; elaborazione e realizzazione di azioni di promozione, comunicazione e tutela tese alla valorizzazione commerciale del vino “A.V., organizzazione di eventi, mostre, convegni, workshop e attività coinvolgenti sia aziende associate che aziende non associate, rivolte a promuovere a livello nazionale e internazionale il vino “A.”; partecipazione attiva ai tavoli istituzionali contribuendo alla definizione delle politiche di promozione del vino “A.”; cura, sviluppo, diffusione dell’immagine del vino “A.” attraverso azioni di promozione e valorizzazione sul mercati nazionali ed internazionali; sostegno al successo del vino “A.” e dei marchi degli associati sui mercati nazionali ed internazionali …; individuazione di nuovi percorsi per la promozione del vino “A.” ricercando idonee sinergie con i settori più rappresentativi del made in Italy; creazione, deposito e utilizzo di un marchio che contraddistingua il vino “A.” prodotto dai soci consorziati“; inoltre la società consortile si era dotata di Regolamento Consortile il cui art. 4 rubricato “Disciplinare” descriveva , sulla falsariga di un disciplinare di produzione, alcuni requisiti che i Soci s’impegnavano a rispettare nella produzione del “vino “A.”” nonché nella organizzazione interna senza che però nessun soggetto o ente terzo fosse chiamato a vigilare sul rispetto di detto Regolamento e di detto disciplinare, peraltro neppure pubblicati.

Ancora gli attori hanno affermato che nel 2010 la società L.F. soc cons a r.l. aveva creato un logo costituito da una composizione grafica comprendente in posizione centrale la lettera “A” in stampatello maiuscolo, circondata da una cornice circolare formata superiormente da motivi ornamentali ed inferiormente da due diciture anch’esse in stampatello maiuscolo: la prima, più esterna, compone la scritta “Famiglie dell’Amarone d’Arte“; la seconda, più interna, componente la scritta “Amarone Families“, che ciascuno dei soci apponeva sulle proprie bottiglie a d.o.c.g. “A.V.”.

La società convenuta aveva altresì presentato in data 20.05.2010 in sede comunitaria, presso l’UAMI, domanda di registrazione di detto logo quale marchio comunitario per le classi merceologiche n. 35 e n. 41 ed era stata poi presentata anche una nuova domanda del 30.01.2014 di registrazione per le classi merceologiche n. 33 e 43: pendevano in sede europea procedimenti promossi dal Consorzio, volti ad accertare la nullità della prima registrazione e di opposizione alla seconda.

L.F. soc cons a r.l. aveva altresì presentato in sede nazionale presso l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi in data 24.5.2010 domanda n. (…) di registrazione di tale logo come marchio figurativo nazionale per le classi merceologiche n. 35 e 41 ed il marchio era stato registrato il 27.01.2011 con il n. (…)

Hanno inoltre affermato che varie erano state le pratiche commerciali e gli atti censurabili poste in essere dai convenuti ed elencati in dettaglio.

Ciò esposto hanno lamentato:

– l’uso illegittimo da parte de L.F. soc. cons. a r.l. nella propria denominazione sociale della menzione tradizionale “A.” c/o di un elemento costitutivo distintivo della d.o.c.g. “A.V.” in violazione dell’art. 26, co. 1, D.Lgs. n. 61 del 2010, dell’art. 5, co. 1, D.Lgs. n. 297 del 2004, degli artt. 103, 2, lett. a), e 113, 2, Reg. UE n. 1308/2013, degli artt. 19, 3, e 40, 2, Reg. CE n. 607/2009, nonché – quanto alla separazione della menzione “A.” dal toponimo “V.” – in violazione dell’art. 19, 3, Reg. CE n. 607/2009, in combinato disposto con l’all. XII, parte B, dello stesso Regolamento

– la nullità del marchio figurativo registrato da L.F. soc. cons. a r.l. presso l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi con n. (…) del 27.01.2011, per contrarietà alla legge ex artt. 25, lett. b), c 14, co. I, lett. a) e b), D.Lgs. n. 30 del 2005, poiché in violazione dell’art. 29, D.Lgs. n. 30 del 2005, dell’art. 20, co 1, 2 e 4 D.Lgs. n. 61 del 2010, nonché dell’art. 102, 1, Reg. UE n. 1308/2013 e degli artt. 19, 3, 40, 2, e 41, 1, Reg CE n. 607/2009,

– la esistenza di pratiche commerciali scorrette e di concorrenza sleale dei soci dei soci de L.F. soc. cons. a r.l. in danni dei Produttori e degli altri produttori di vino a d.o.c.g A.V. consistenti :

  • nell’utilizzo della menzione protetta per promuovere selettivamente i propri prodotti e ciò anche per quelli di diversa denominazione od indicazione geografica
  • nello svolgimento di attività promozionale e commerciale volta ad indurre erroneamente i consumatori a ritenere che esistesse un vino denominato Amarone d’Arte ” o di serie A o con la A maiuscola il quale si distinguerebbe per miglior qualità dagli altri vini a d.o.c.g. A.V. non prodotto regola d’arte o di serie B o con la “a” minuscola e ciò in violazione degli artt. 20, co. 1 e 2,23, co. 3, e 26, co 2, D.Lgs. n. 61 del 2010 nonché dell’art. 2598 n. 1 e 3 c.c. e degli art. 20 comma 1 e 21 co. 2 lett. a) DLGS 206 /2005.

Tutto ciò attraverso attività di comunicazione convegnistica e realizzazione di eventi, distinzione dei propri prodotti con un apposito specifico logo con finalità di garantire “su ogni bottiglia l’A. con la A maiuscola” introducendo per questa via la suggestione di un A. “speciale”, la registrazione dello stesso logo quale marchio comunitario e nazionale; l’organizzazione di eventi nei quali i soci promuovevano anche la vendita di altri vini di loro produzione sfruttando così il veicolo pubblicitario costituito dalla d.o.c.g “A.V.”; la pubblicità ingannevole ai sensi dell’art. 2, co. 1, lett. b), D.Lgs. n. 145 del 2007, anche in relazione all’adozione di un asserito codice di condotta non assistito da alcuna garanzia di terzietà; lo svolgimento di pubblicità comparativa basata su elementi non obiettivi e non verificabili, in violazione dell’art. 4, co. 1, lett. c) e d), D.Lgs. n. 145 del 2007; l’adozione di pratiche commerciali ingannevoli.

Hanno formulato le conclusioni trascritte in premessa.

I convenuti hanno svolto alcune considerazioni ” preliminari ” circa il fatto che la produzione di “A.” nel tempo era stata fatta oggetto di una crescita disequilibrata, fenomeno che il Consorzio non aveva efficacemente contrastato assumendo anzi un atteggiamento “contraddittorio” sfociato in particolare nel 2009 in un aumento della superficie viticola per poi abbassare la percentuale di cernita per le uve a riposo, il tutto a discapito dei vigneti altamente vocati che avevano pagato il prezzo legato alla percentuale di cernita ed erano stati altresì “affiancati” a nuovi vigneti entrati in produzione e destinati, anch’essi, alla produzione di A., (politica poi proseguita nel 2013 con la proposta di modifica dell’art. 4 del disciplinare di produzione dell’A., ossia con proposta di estendere, ai fini dell’idoneità alla produzione del vino A.V.,l’area di produzione anche ai vigneti piantati su terreni freschi, situati in pianura o nei fondovalle).

Hanno altresì asserito che la costituzione della società Consortile convenuta era avvenuta nel 2009 anteriormente al D.Lgs. n. 61 del 2010 ed aveva avuto l’unico intento di promozione e diffusione dell’Amarono di produzione delle “famiglie”, quale risultato del rispetto di un “disciplinare” adottato secondo i canoni della tradizione più autentica.

Ciò premesso hanno in primis eccepito la carenza di legittimazione attiva del Consorzio sul rilievo che il decreto 25.1.2013 (GU 32 del 7.2.2013) – con il quale era avvenuto il Riconoscimento del Consorzio per la T.V. e vi era stato conferimento dell’incarico erga omnes – era viziato per violazione di legge e doveva esser disapplicato: ciò in quanto l’ente consortile, non era mai stato in possesso dei requisiti richiesti dalla normativa per il riconoscimento ai sensi dell’art. 17 comma 1 del D.Lgs. n. 61 del 2010, né lo era a) momento del riconoscimento, avvenuto con il citato decreto del 25 gennaio 2013

Sul punto hanno dedotto che uno dei presupposti per ottenere il riconoscimento erga omnes era integrato dall’adozione di uno statuto conforme alle prescrizioni del D.M. 16 dicembre 2010 nel mentre lo statuto era stato adottato dal Consorzio con provvedimento assembleare viziato per difetto del quorum necessario per le assemblee straordinarie.

Hanno altresì eccepito che anche a prescindere dalla sussistenza o meno del potere del Consorzio a rappresentare collettivamente in giudizio ex art. 81 c.p.c. i componenti della filiera vinicola inseriti nel sistema dei controlli della denominazione tutelata, esso e le singole aziende produttive non avevano comunque alcuna legittimazione a richiedere provvedimenti inibitori all’uso dell’attuale denominazione della società consortile convenuto per violazioni della disciplina dettata dal D.Lgs. n. 61 del 2010, in ragione del fatto che il potere sanzionatorio in merito a pretese violazioni della disciplina del D.Lgs. n. 61 del 2010 era riservato al Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali (poteri che allo stato il Ministero non aveva inteso azionare) cosi come non spettava al Consorzio la legittimazione a richiedere una pronuncia di nullità del marchio registrato presso l’UIBM.

Nel merito hanno poi esposta in sintesi quanto segue.

Denominazione sociale

Sul punto hanno premesso che i vincoli e le sanzioni connesse all’uso delle menzioni tradizionali e delle denominazioni di origine di cui alla normativa richiamata dagli attori erano nati non come strumento per contrastare l’operato di un soggetto legittimamente immesso nella filiera, bensì per garantire una tutela agile ed effettiva alla denominazione di origine nei confronti di soggetti esterni.

Hanno negato che sussistesse violazione degli artt. 26 comma 1 D.Lgs. n. 61 del 2010, 5 comma 1 D.Lgs. n. 297 del 2004, 113 2 Reg. Ue 1308/2013 e 40 Reg. Cc 607/2009 osservando innanzitutto quanto al D.Lgs. n. 61 del 2010 che l’utilizzo della denominazione della società consortile risaliva a data antecedente all’entrata in vigore di detto Decreto legislativo.

Hanno poi rilevato che la denominazione protetta il cui uso era riservato al Consorzio di Tutela era “A.V.” mentre nella denominazione della società consortile convenuta veniva usato il solo termine “A.”

Hanno asserito che gli attori avevano confuso la disciplina delle denominazioni tutelate con quella delle menzioni tradizionali. Quanto al fatto che “A.” fosse termine che individuava anche una “menzione tradizionale” hanno affermato che se era vero che la normativa europea di cui ai Reg. UE 1308/2013 e Reg. Ce 607/2009 dettava norme di tutela delle “menzioni tradizionali” espressamente includendovi la menzione “A.”, era altrettanto vero che il fine di detta tutela era scongiurare prassi che potessero indurre in errore il consumatore: detta disciplina non vietava in assoluto l’inserimento in una denominazione sociale o in un marchio di una D.O. ma richiedeva che ciò non fosse fatto al fine di indurre in errore il consumatore e nel caso di specie sussisteva il pieno diritto della società consortile e dei soci di utilizzare la menzione tradizionale “A.” poiché ciò avveniva in riferimento ad un prodotto che aveva tutti i requisiti previsti dal disciplinare di produzione della denominazione citata.

Marchio nazionale registrato

I convenuti hanno preliminarmente dato atto di aver proceduto in data 16.9.2015 alla limitazione del marchio aggiungendo ai servizi protetti la seguente dicitura: “tutti i servizi si riferiscono a vini conformità con la denominazione di origine protetta A.V.”.

Hanno poi negato la sussistenza di violazione dell’art. 25 lett. b) ) e dell’art.14 co. 1, lett b D.Lgs. n. 30 del 2005 (c.P.i) e negato altresì che il marchio fosse confliggente con le norme dettate in materia di denominazioni protette e in particolare dell’art. 20 n 4 D.Lgs. n. 61 del 2010 e dell’art. 40 Reg Cc 607/2009

Hanno contestato la tesi attorea secondo cui il marchio in oggetto sarebbe idoneo a trarre in inganno il pubblico dei consumatori in ordine alla natura e alla qualità del vino prodotto (in quanto secondo la prospettazione attorea con questo marchio verrebbe presentato un prodotto diverso e migliore rispetto al normale “A.V.”) in contrasto con . 25 lett. b) ) e dell’art.14 co. 1, lett b D.Lgs. n. 30 del 2005 (c.P.i) e con le norme in materia di denominazione protetta osservando che le convenute “socie” della società consortile erano aziende rinomate che da anni producevano il vino docg nel pieno rispetto delle regole di produzione del disciplinare medesimo, e risultavano dunque legittimate all’utilizzo della denominazione “A.V.” e che lo stesso disciplinare del Consorzio attoreo al comma 2 dell’art. 7 consentiva ” l’uso di indicazioni che facciano riferimento a nomi, ragioni sociali, marchi privati o di consorzi, purché non abbiano significato laudativo e non siano tali da trarre in inganno l’acquirente”.

Hanno affermato sul punto che il marchio “F.A.” non aveva alcuna connotazione laudativa, dato che né il termine “famiglie” né l’espressione “d’arte” avevano carattere elogiativo. Quest’ultimo in particolare nelle intenzioni delle imprese associate era volto ad indica la “capacità di agire e di produrre, basata su un particolare complesso di regole e di esperienze conoscitive e tecniche”; in ogni caso, comunque venisse interpretata l’ espressione in esame essa risultava in ogni caso neutra per il consumatore medio e priva di qualsivoglia significato laudativo o discretivo in quanto le espressioni “d’Arte”, “fatto a regola d’arte” o similari erano slogan oramai “volgarizzati”, utilizzati in vari settori merceologici e privi di autonoma capacità persuasiva e/o selettivamente decisoria presso il consumatore medio.

Hanno inoltre affermato che le indicazioni protette aveva avuto una regolamentazione con il Reg. CE 479/2008 che stabiliva, all’ art. 44) la nullità tout court del segno successivamente registrato contenente una menzione tradizionale senza alcuna eccezione ma tale norma era stata sostituita dal Reg. CE 607/2009 e che dal combinato disposto degli artt. 40 e 44 del Reg CE 607/2009 era desumibile che la tutela della menzione protetta con riferimento al marchio era riferita alle sole ipotesi di usurpazione/confusione per i consumatori il che era da escludersi nella fattispecie poiché il marchio era stato registrato con la successiva limitazione che i “suddetti servizi si riferiscono a vini in conformità con la denominazione di origine protetta A.V.”.

Hanno altresì affermato che Il D.Lgs. n. 61 del 2010 nello stabilire all’art. 20 (Impiego delle denominazioni geografiche) che “Dalla data di iscrizione nel “registro comunitario delle DOP e IGP”, le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche non possono essere usate se non in conformità a quanto stabilito nei relativi disciplinari di produzione” aveva recepito quanto indicato nell’ art. 44 del Reg. CE 479/2008, non accorgendosi che “nel frattempo in ambito comunitario, i citati artt. 40 e 41 Reg. CE 607/2009 avevano rivoluzionato la materia secondo i principi sopra esposti” ed hanno affermato che la norma nazionale del D.Lgs. n. 61 del 2010 era contrastante con quella comunitaria considerato anche il successivo Reg CE 1308/2013 che all’art. 113 lett. c) vietava l’uso di una menzione tradizionale solo quando ciò integrava pratiche o circostanze atte ad indurre il errore il consumatore

Hanno chiesto sul punto che il procedimento venisse sospeso per sottoporre alla Corte di Giustizia la questione pregiudiziale riportata nelle “conclusioni” trascritte in premessa e chiesto che comunque l’art. 20 D.Lgs. n. 61 del 2010 venisse disapplicato per contrarietà con la normativa europea stante la prevalenza del diritto comunitario sul i nazionale

Infine hanno anche affermato che l’art. 113 Reg Ce 1308/2013 riecheggiando quanto già previsto dagli artt. 40 e 41 Reg CE 607/2009 limitava l’ambito di protezione delle denominazioni tradizionali alla sola funzione di indicatore di provenienza escludendo in radice la tutela della funzione di collettore di clientela del marchio;

in ogni caso il marchio registrato si riferiva ai servizi della classe 35 e 41 e non a vini mentre la norma di cui all’art. 44 reg CE 479/2008 concerneva solo i marchi riguardanti prodotti rientranti nelle categorie elencate nell’allegato IV dello stesso regolamento.

Concorrenza sleale; danni

Hanno contestato nel dettaglio le asserite illiceità ed altresì la domanda di condanna generica al risarcimento dei danni.

La causa è stata istruita solo documentalmente, precisate le conclusioni come trascritte in premessa all’esito del deposito delle memorie ex art. 183 VI comma c.p.c. e concessi i termini di cui all’art. 190 c.p.c. nonché effettuata la discussione orale la causa è stata trattenuta dal Collegio in decisione.

Giova premettere che le questioni relative alle censure all’operato del Consorzio attore, mosse dai convenuti ( e sulle quali gli attori hanno comunque replicato), sono estranee alla materia del contendere che concerne la liceità o meno della denominazione della società convenuta, del marchino nazionale registrato e delle attività prospettate dagli attori quali attività concorrenza sleale.

Questione pregiudiziale

Va innanzitutto rilevato che in forza della potestà regolamentare conferita dagli artt. 32 e 37 TCE, del Trattato CE vigente anteriormente all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, è stato emanato il Reg. CE n. 479/2008, disciplinante fra l’altro le denominazioni d’origine, le indicazioni geografiche e le menzioni tradizionali.

Gli stessi artt. 63 e 113, 1, del Regolamento hanno attribuito alla Commissione una potestà regolamentare “di secondo grado”, esecutiva/ attuativa delle disposizioni generali ed il Reg CE 607/2009 è per l’appunto espressione di tale potestà di secondo grado , attuativa” del Reg CE 479/2008 di tal che esso non può aver abrogato il Reg CE 479/2008 in nessuna sua parte.

Va peraltro precisato che dal Regolamento attuativo CE 607/2009 all’esito della modifica effettuata dal Reg. CE n. 538/2011 (art. 1, 3 e 4) è stato eliminato il precedente limite all’esclusione dalla registrazione e alla sanzione di nullità dei marchi d’impresa per il ” vino che ha diritto all’uso di tale menzione tradizionale”.

Il legislatore italiano, con la Legge delega n. 88/2009 e con il D.Lgs. n. 61 del 2010, non ha affatto ignorato il Reg CE 607/2009 posto che il D.Lgs. n. 61 del 2010 fa riferimento sia al Reg. CE n. 479/2008 sia alle norme di attuazione contenute nel Reg. CE n. 607/2009 ( richiamato nel preambolo e in vari articoli quali gli artt. 7, co. 1;9, co 3; 10,co. 3; 11, co. 1; 14, co. 9; ecc.) attuativo del REG 479/2008 fatto oggetto della legge delega (né può ritenersi che ciò esorbiti dai limiti della legge delega trattandosi di richiamo ad un regolamento attuativo di quello fatto oggetto della legge delega stessa).

Il Reg. CE n. 479/2008 è stato poi abrogato dal Reg. n. 491/2009 emanato dal Consiglio (e di tale abrogazione dà atto il D.Lgs. n. 61 del 2010) che ha stabilito di trasfondere le norme di cui al Reg. CE n. 479/2008 nel previgente Reg. CE n. 1234/2007(“Regolamento Unico OCM”): la normativa sulle denominazione d’origine, indicazioni geografiche e menzioni tradizionali all’esito di ciò si ritrovava negli artt. 118 bis e seguenti Reg CE n. 1234/2007

A sua volta il Reg CE 1234/2007 è stato abrogato dal Reg CE 1308/2013 (che prevede anch’esso agli artt. 109, 114 e 227 potestà regolamentare di esecuzione della Commissione) e la normativa sulle denominazione d’origine, indicazioni geografiche e menzioni tradizionali si ritrova negli art. 92 e segg. di tale ultimo regolamento

In sede nazionale da ultimo è entrata il vigore la L. 12 dicembre 2016, n. 238 (Disciplina Organica della Coltivazione della vite e della produzione e del commercio del vino) che ha abrogato espressamente il D.Lgs. n. 61 del 2010, all’art. 1 la legge precisa per quel che qui rileva che: ” La presente legge reca le norma nazionali per la produzione, la commercializzazione, le denominazioni di origine, le indicazioni geografiche, le menzioni tradizionali, l’etichettatura e la presentazione, la gestione, i controlli e il sistema sanzionatorio dei prodotti vitivinicoli di cui ai regolamenti (UE) n 1308/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, e n. 1306/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 dicembre 2013 nonche’ al regolamento delegato (UE) 2016/1149 della Commissione, del 15 aprile 2016, e al regolamento di esecuzione (UE) 2016/1150 della Commissione, del 15 aprile 2016..”

Tale legge precisa altresì all’art. 26 che : “1 Le definizioni di “denominazione di origine” e di “indicazione geografica” dei prodotti vitivinicoli sono quelle stabilite dall’articolo 93 dei regolamento (UE) n. 1308/2013 2 Le DOP e le IGP, per le quali e’ assicurata la protezione ai senti del regolamento (UE) n. 1308/2013 e del regolamento (UE) n. 1306/2013, sono riservate ai prodotti vitivinicoli alle condizioni previste dalla vigerne normativa dell’Unione europea e dalla presente legge ”

Ciò esposto va rilevato che sia il considerando n. 28 del previgente regolamento CE n. 47/2008 considerando n. 93 del vigente regolamento UE n. 1308/2013 (///) tuttora in vigore prevedono che gli stati membri possano applicare norme più rigorose ; il considerando contribuisce a specificare l’oggetto e la portata del testo normativo di tal che la normativa nazionale su denominazioni d’origine, indicazioni geografiche e menzioni tradizionali qualora preveda standard di tutela più rigorosi non si pone in contrasto con la corrispondente normativa europea che vieta adozione di normative nazionali con standard inferiori di tutela

Ritiene dunque il Collegio sul punto che non sussistano dubbi interpretativi tali da consigliare il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ai sensi dell’ art. 267 T.F.UE su quanto indicato da parte convenuta Non senza altresì osservare che il rinvio non e in ogni caso necessario ai fini della decisione per quanto si dirà infra.

Legittimazione attiva

Parte convenuta adduce in primis l’illegittimità del D.M. del 25 gennaio 2013 di riconoscimento del Consorzia di Tutela attoreo (riconoscimento peraltro poi rinnovato per un ulteriore triennio con D.M. 14 marzo 2016) chiedendone la disapplicazione, viene addotta la illegittimità per la invalidità, “a monte”, della Delib. del 25 luglio 2012, con cui l’assemblea dei soci del Consorzio ha adeguato il proprio statuto ai requisiti stabiliti dall’art. 2, D.M. n. 50349 del 16 dicembre 2010, adeguamento necessario per il riconoscimento ministeriale del quale ora parte convenuta chiede la disapplicazione. La dedotta invalidità della delibera del Consorzio è fondata su difetto di quorum.

L’eccezione è infondata: in primis va rilevato che l’asserito difetto del quorum costitutivo è vizio che, qualora ipotizzato come esistente, non comporterebbe in ogni caso la nullità bensì mera annullabilità della delibera ed è dunque vizio che può esser fatto valere solo dai consorziati assenti, dissenzienti od astenuti, mediante impugnazione nel termine di legge: tale impugnazione non è avvenuta con la conseguenza che detta pretesa invalidità non può essere in alcun modo rilevata d’ufficio o fatta valere da chiunque abbia interesse.

A ciò si aggiunga, come ben osservato dagli attori, che il potere di disapplicazione incidentale degli atti amministrativi illegittimi attribuito ai giudici ordinari ex art. 4, co. 1, all. E, L. n. 2248 del 1865, è limitato al caso in cui “la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso” mentre nella fattispecie parte convenuta richiede la disapplicazione del decreto di riconoscimento del Consorzio a mera contestazione della legittimazione attiva vantata dallo stesso Consorzio.

E’ infondata anche la eccezione afferente la asserita mancanza di legittimazione attiva del Consorzio in relazione alte richieste concernenti la denominazione, eccezione che i convenuti fondano sul fatto che solo il Ministero avrebbe poteri sanzionatoti : devesi infatti osservare che nel presente procedimento il Consorzio non fa affatto valere un potere sanzionatorio ma, la lesione sul piano “civilistico” integrata dall’ uso improprio della denominazione tutelata e comunque da comportamenti vietati dalla legge per le quali ha legittimazione ad agire sulla scorta delle attribuzioni proprie dei Consorzi di Tutela, sin dalla L. n. 526 del 1999. All’art. 14 essa stabiliva che ai Consorzi di tutela riconosciuti dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali fossero attribuite funzioni di tutela, promozione, valorizzazione, informazione del consumatore e cura generale delle Indicazioni Geografiche, prevedendo in particolare che essi collaborassero secondo le direttive impartite dal Mipaaf, alla vigilanza, alla tutela e alla salvaguardia della DOI’ e della IGP da abusi, atti di concorrenza sleale, contraffazioni, uso improprio delle denominazioni tutelate e comportamenti comunque vietali dalla legge e prevedendo altresì quanto alla attività di tutela che “tale attività è esplicata ad ogni livello e nei confronti di chiunque, in ogni fase della produzione, della trasformazione e del commercio”.

Anche nella normativa successiva vi sono norme che attribuiscono la tutela delle D.o., ai Consorzi di Tutela, anche in sede giudiziale, : per quel che qui interessa ciò SI ritrova nello stesso art. 17 del D.Lgs. 61 del 2010 che precisa al comma 4 lettera c) che i Consorzio di Tutela di cui trattasi possono “agire in tutte le sede giudiziarie e amministrative per la tutela e fa salvaguardia della DOP e della JGP e per la tutela degli interessi e diritti dei produttori”e, da ultimo, anche nella L. n. 238 del 2016 che all’ art. 41 comma 1 lett c) ribadisce che spetta a detti consorzi “collaborare, secondo le direttive impartite dai Ministero, alla tutela e alla salvaguardia della DOP o dell’IGP da abusi, atti di concorrenza sleale, contraffazioni, uso improprio delle denominazioni tutelate e comportamenti comunque vietati dalla legge”;, prevedendo inoltre anch’essa che ai Consorzi di Tutela spetta “agire, in tutte le sedi giudiziarie e amministrative, per la tutela e la salvaguardia della DOP a dell’IGP e per la tutela degli interessi e dei diritti dei produttori”

Analoghe considerazioni -oltre che il generale disposto dell’art. 2601 c.c.- fondano la legittimazione del Consorzio ( oltre che dei produttori ) a reagire anche in sede giudiziale ad atti di slealtà concorrenziale; con la precisazione però che, come rilevato dalla Suprema Corte, sez. III con la sentenza n 7047 del 9.5.2012, la azione volta a reprimere fatti di concorrenza sleale che spetta agli enti esponenziali ex art. 2601 c.c. (e nella fattispecie attribuita al Consorzio di Tutelo sia ex art. 2601 c.c. sia ai sensi della normativa in materia di attribuzioni dei Consorzio di Tutela già richiamata in sentenza) è diversa da quella risarcitoria meramente eventuale prevista dall’art. 2600 c.c. che spelta al singolo e che l’ente esponenziale non ha legittimazione ad esercitare per i singoli Solo in relazione alla domanda di condanna risarcitoria generica, svolta dal Consorzio per i produttori non costituiti in giudizio va dunque affermata la carenza di legittimazione attiva del Consorzio,

Infine quanto alla legittimazione a proporre domanda di nullità del marchio nazionale va rilevato quanto segue: l’art. 122 c.p.i. al primo comma detta una regola generale in tema legittimazione per le azioni di nullità o decadenza delle privative industriali prevedendo che l’azione diretta ad ottenere la dichiarazione di decadenza o nullità di un titolo di proprietà industriale possa essere promossa da chiunque vi abbia interesse, per gli specifici casi di azione di nullità dei marchi e disegni e modelli vigono poi le regole dettate dalle norme speciali e cioè rispettivamente dal secondo e terzo comma dello stesso articolo che derogano a quanto previsto dal primo comma dell’art. 122 cpi.. In particolare, con riferimento, ai marchi l’art. 122 comma secondo c.p.i prevede che ” l’azione diretta ad ottenere la dichiarazione di nullità di un marchio per la sussistenza di diritti anteriori oppure perchè l’uso del marchio costituirebbe violazione di un altrui diritto di autore, di proprietà industriale o altro diritto esclusivo di terzi…. può essere esercitata soltanto dal titolare dei diritti anteriori e dal suo avente causa o dall’avente diritto”, così configurando l’azione di nullità de qua come azione di nullità relativa sul punto non può dunque condividersi l’affermazione degli attori (ribadita anche in conclusionale) secondo cui chiunque abbia interesse può agire con l’azione di nullità di marchio.

Il Consorzio non ha la titolarità di inarchi collettivi anteriori atteso che in giudizio è emerso che è la C.C.I.A.A. di Verona, ad essere titolare dei marchi collettivi verbali “A.” ed “A.V.” anteriormente registrati presso l’UIBM.

Va però rilevato che tra i cd “diritti anteriori” da includersi tra quelli previsti dal secondo comma dell’art. 122 c.p.i vanno ricompresi anche i diritti afferenti le denominazioni di origine stante anche il disposto dell’art. 29 c.p.i; alla luce di ciò il Consorzio di Tutela, che ha attribuzione normativa di tutela della denominazione di origine in forza della normativa su richiamata, è legittimato anche ad agire in giudizio per la declaratoria di nullità di un segno/marchio che violi la normativa in materia denominazioni di origine

Denominazione della società consortile convenuta

Per il principio della “ragione liquida” va osservato quanto segue.

E’ infondata la difesa dei convenuti secondo cui la propria denominazione non violerebbe alcuna normativa vista la non applicabilità dell’art. 26, co. 2, D.Lgs. n. 61 del 2010 per essere detta norma entrata in vigore successivamente alla adozione della denominazione sociale avvenuta nel 2009, giova infatti rilevare che tale norma – concernente specificamente il settore vinicolo – non ha fatto altro che riprodurre il disposto dell’art. 5 primo comma del D.Lgs. n. 297 del 2004 vigente anche all’epoca della assunzione della denominazione di cui trattasi da parte della società consortile, che sanziona 1′ “uso della denominazione protetta, nella ragione o denominazione sociale di un organizzazione diversa dal Consorzio di tutela” uso con tutta evidenza dunque anche in allora vietato, poi vietato dal D.Lgs. n. 61 del 2010 cd attualmente vietato dalla L. n. 238 del 2016: il divieto insomma vige quantomeno dalla entrata in vigore del D.Lgs. n. 297 del 2004 ed è stato confermato dalla normativa succedutasi sino a tutt’oggi.

Non vi è dubbio poi che la menzione “A.V.” era già denominazione protetta nel 2009 essendo in sede nazionale stata riconosciuta come d.o.c. sin dal D.P.R. 21 agosto 1968 ( essa è stata poi riconosciuta come d.o.c.g. sin dal D.M. 24 marzo 2010 mentre in sede europea la menzione tradizionale “A.V.” è stata come tale riconosciuta dal Reg. CE n. 607/2009 all. XII, parte B, e poi riconosciuta dal 2011 anche come d.o.p. )

Il divieto di uso di denominazione protetta non è leggibile nel senso che il divieto riguardi solo l’uso della denominazione per intero, dovendosi per contro ritenere, che sia vietato anche l’uso di parte di essa qualora tale parte sia integrata da elementi caratterizzanti, distintivi della denominazione stessa, idonei come tali a produrre lo stesso effetto dell’uso della denominazione intera, ( c cioè l’effetto di indurre in errore il consumatore nella individuazione del soggetto cui sono istituzionalmente attribuite le funzioni di tutela). Tale principio, insito nel divieto stesso, è stato peraltro esplicitato in sede regolamentare europea nell’art. 19, 3, Reg. CE n. 607/2009, secondo cui la protezione “si applica al nome intero, compresi i suoi elementi costitutivi, purché siano di per sé distintivi”.

Indubbiamente il termine “Amarone” è elemento distintivo ed esso non può dunque essere utilizzato nella denominazione sociale della società consortile convenuta.

Neppure può dirsi (come affermato dai convenuti) che la società L.F. soc. cons. a r.l. possa comunque usare la menzione “A.” perché i suoi soci producono vini docg essendo assorbente il rilievo che trattasi di società a responsabilità limitata con personalità distinta dai propri soci, e come tale non certo inserita nel sistema di certificazione e controllo del Disciplinare di produzione della docg ; proprio il fatto che si tratti di società consortile che ha quale oggetto sociale l’ effettuazione di servizi peraltro aggrava la possibilità di errore individuazione del soggetto cui sono istituzionalmente attribuite le funzioni di tutela.

Non senza rilevare per completezza che nella denominazione il termine “Amarone” è associata alla espressione “d’Arte” con tutti i rilievi sul punto svolti che verranno svolti infra.

Ciò è sufficiente per la illegittimità della denominazione della società convenuta e del suo uso

Va conseguentemente inibito a L.F. soc. cons. a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, l’uso nella propria denominazione sociale della menzione tradizionale “A.” e di ogni riferimento alla d.o.c.g. “A.V.”, con ordine a detta società di provvedere alla modificazione della denominazione sociale di cui trattasi con eliminazione di ogni riferimento alla d.o.c.g. “A.V.” o di sue parti distintive e così pure dal nome a dominio dei siti web www.amaronefamilies.it e www.amar.one.

Marchio nazionale registrato

Trattasi del marchio di cui alla domanda in data 24.5.2010 n. (…) registrato il 27.01.2011 con il n. (…) per le classi merceologiche n. 35 e 41 con successiva limitazione (del 16.9.2015) dei servizi protetti effettuata con la seguente dicitura: “tutti i servizi si riferiscono a vini conformità con la denominazione di origine protetta A.V.”.

Il marchio consta di una composizione grafica comprendente la lett. A circondata da una cornice circolare formata superiormente da motivi ornamentali ed inferiormente da una prima dicitura “F.A.” e una seconda più interna componente la scritta “A.F.”

Parte attrice ha invocato, trattandosi di privativa nazionale, in primis la violazione dell’art. 25 lett. b) ) in relazione al disposto dell’art.14 co. 1, lett b) c.p.i per contrasto con disposizioni di legge. Quale disposizione di legge ha indicato l’art. 20 n 4 D.Lgs. n. 61 del 2010 secondo cui che le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche protette non possono essere usate se non in conformità a quanto stabilito nei relativi disciplinari di produzione. Tale norma è stata medio tempore abrogata dalla L. n. 238 del 2016 il cui art. 44 (“Utilizzo delle denominazioni geografiche, delle menzioni tradizionali e delle altre indicazioni riservate ai prodotti vitivinicoli DOP e IGP”) prevede che; “1. Dalla data di iscrizione nel registro delle DOP e IGP della Commissione europea, le DO e le IG, le menzioni tradizionali, le unita’ geografiche piu’ grandi, le sottozone e le unita’ geografiche piu’ piccole e le altre indicazioni riservate alle rispettive DOP e IGP non possono essere usate se non in conformita’ a quanto stabilito nei relativi disciplinari di produzione, nella specifica normativa dell’Unione europea e nella presente legge”.

2. A decorrere dalla stessa data di cui al comma 1, e’ vietata qualificare, direttamente o indirettamente, i prodotti che portano la denominazione di origine o l’indicazione geografica in modo non consentito dal rispettivo disciplinare di produzione ”

Alla luce di tali disposizioni e del disciplinare della DOCG – il cui art. 7 comma 1 fa divieto che alla menzione tradizionale sia aggiunta “qualsiasi specificazione diversa da quelle previste dal presente disciplinare di produzione Ivi compresi gli oggettivi “extra”, “fine”, scelto e similari- va valutato il marchio nazionale in esame.

Deve convenirsi con gli attori che la scritta F.A. posta con particolare evidenziazione e grandezza dei caratteri nel contesto del marchio e occupante parte consistente della circonferenza esterna inferiore del marchio stesso ha valenza laudativa inducendo il consumatore a ritenere che ci si riferisca a vino -all’interno dei vini docg Amarone Valpolicella –  “d’arte” ovviamente contrapposto agli altri vini docg A.marone Valpoliccela  “non d’arte”. I convenuti hanno affermato che l’espressione “d’Arte”, sarebbe riferita non già al vino, quanto piuttosto all’attività produttiva dei Soci che “si comportano secondo le buone regole che disciplinano la materia” ossia “a regola d’arte” (si veda pag. 29 della comparsa di costituzione e risposta) e si tratterebbe di una espressione “neutra” anche per l’ampio uso nel commercio che di detta espressione viene fatto.

Nel marchio però a differenza di quanto sostenuto dai convenuti, con tutta evidenza l’espressione “d’Arte” è direttamente collegata non alla parola “Famiglie” ma alla parola “A.” che la precede immediatamente nel logo e tale diretto collegamento è vietato dalla normativa e dal disciplinare su richiamati e non può peraltro non creare nel consumatore la suggestione di un per l’appunto “Amarone d’Arte” che implicitamente si differenza da altro “Amarone” (non d’arte). Nel marchio tale impressione è ulteriormente rafforzata dall’ abbinamento alla lettera A posta in posizione di centralità nell’insieme del segno ed evocante sia la parola “Amarone” che “Arte” rafforzativa ulteriormente della suggestione di un vino Amarone di qualità superiore (con la A maiuscola).

Trattasi di utilizzo non consentito della denominazione d’origine.

La normativa di tutela delle denominazioni d’origine, e menzioni tradizionali (sia comunitaria che nazionale) è volta alla tutela di dette denominazioni d’origine, e menzioni tradizionali non soltanto dalle illecite appropriazioni da parte di soggetti esterni alla filiera ma anche dall’uso non corretto da parte dei componenti della filiera stessa.

Se invero i componenti della filiera della D.O. – che in quanto tali sono tutti assoggettati e vincolati al medesimo disciplinare di produzione – possono utilizzare nei modi previsti dalla legge ( che rimanda al disciplinare) la menzione tradizionale e le denominazione d’origine, essi non possono effettuare detto utilizzo con modalità vietate che violino la ratio e il sistema stesso di tutela delle D.O.: tale sistema prevede che qualsiasi “valorizzazione” di particolari metodi di elaborazione, zone di produzione ecc… che voglia fregiarsi della D.O. passi attraverso un sistema regolamentato dalla legge ed è vietato pertanto al di fuori di detta regolamentazione, accostare ad una D.O. qualsivoglia specificazione che non sia consentita dalla legge e dal disciplinare approvato.

L’uso di una parte caratteristica e distintiva della OCG rappresentata nel caso in esame dalla parola “Amarone” con la successiva immediata specificazione “d’arte” non è dunque consentita: essa è in primis vietata dall’ art. 7 l’ 2 del disciplinare che non consente specificazioni aggiuntive.

Detto uso del resto in forza del fatto che alla parola Amarone viene aggiunta l’espressione “d’Arte” come tale “laudativa”, è idoneo ad indurre in errore creando una suggestione di “sottocategoria” all’interno della filiera odcg, nel mentre nessuna differenziazione nell’ambito del sistema della Odcg “A.V.” è prevista dall’unico disciplinare di produzione approvato; né da ultimo una qualsivoglia differenziazione nell’ambito del sistema delle D.O. può avvenire come si è già detto su base “volontaria” al di fuori di qualsivoglia previsione normativo, senza che gli specifici più rigorosi disciplinari di produzione siano approvati secondo le procedure di legge e senza il sistema di controlli ex lege previsto.

Ciò non significa, come si dirà infra trattando degli addebiti di concorrenza sleale che le differenziazioni tra i vari produttori e prodotti – differenziazioni che ben possono esistere al di la del rispetto del disciplinare a cui tutti i componenti della filiera son tenuti – non possano essere promosse o valorizzate, ma detta promozione o valorizzazione deve in buona sostanza avvenire stante la normativa che tutela le D.O. in un regime di “separatezza” rispetto alle D.O., con modalità tali da non intaccare le D.O. medesime con indebiti specificazioni ed accostamenti.

Il marchio nazionale de quo che ingloba la espressione “A.A.” è dunque per tutto quanto esposto nullo.

Né rileva che il marchio sia stato registrato per i servizi attinenti al vino OCDG “A.V.” atteso che vi è comunque violazione della DOGC nel senso su esposto.

Va conseguentemente inibito l’uso del marchio de quo a L.F. soc. cons. a r.l., nonché ai suoi soci (…)

Ritenuta l’opportunità che la inibitoria sia assistita ex art. 124, co. 2, D.Lgs. n. 30 del 2005 da penale, pone a carico di ciascun convenuto una somma di Euro 30,00 in favore del Consorzio per la T.V. per ogni violazione od inosservanza rispettivamente da ciascuno di essi poste in essere, a decorrere da dopo il trentesimo giorno dalla pubblicazione della sentenza.

E’ poi sufficiente a tutelare adeguatamente dall’ uso del marchio affetto da nullitá l’ l’ulteriore ordine ad (…) prodotti destinati alla commercializzazione, fissando ex art. 124, co. 2 D.Lgs. n. 30 del 2005, la somma di Euro 100,00 in favore del Consorzio per la T.V. per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento con decorrenza dopo il trentesimo giorno dalla pubblicazione della sentenza.

Concorrenza sleale e pratiche commerciali scorrette

Dal complesso delle,allegazioni svolte in citazione deve ritenersi lamentata anche nei confronti della società convenuta la attività di concorrenza sleale sub specie di concorso nella concorrenza sleale dei suoi soci.

L’uso del marchio (effettuato come pacifico in causa oltre che dalla società consortile convenuta anche dai suoi soci) & che contiene la diretta associazione della parola “A.” con l’espressione “d’arte” in violazione dell’art. 7, co. 1 del disciplinare di produzione della d.o.c.g. “A.V.” nonché comunque l’uso tout court della espressione “A.A.” integra per quanto già esposto comportamento valorizzabile anche ai sensi dell’ art. 2598 n.3 c.c. quale comportamento scorretto professionalmente suggerendo esso che all’interno della filiera DOCG possa esservi un “A.V.” connotabile come appunto “d’arte”. Ciò ad illecito vantaggio selettivo di una sola parte dei componenti della filiera DOCG.

Ciascun produttore nell’ambito di leale attività concorrenziale ben può promuovere i propri marchi “industriali” e/o presentarsi come migliore rispetto ad altri produttori ma non può fare ciò “intaccando” la DOCG il che avviene con le modalità già esaminate, atte a produrre la suggestione che il prodotto appartenga ad una declinazione della denominazione d’origine con connotazioni migliori di quelle degli altri appartenenti alla filiera, quando il disciplinare di produzione regolarmente approvato e a cui tutti componenti della filiera si debbono attenere è unico. Il produttore deve insomma differenziarsi attraverso modalità che non tocchino in alcun modo la menzione tradizionale e/o la denominazione OCG “A.V.”, tenendo nettamente separati gli aspetti laudativi (che ben possono essere (///): sorto altri piani e profili) da detta menzione tradizionale e DOCG. a cui i termini laudativi non possono essere accostati.

Quanto all’asserito illecito uso della menzione tradizionale e Docg “A.V. per promuovere a traino anche altri prodotti non può ritenersi avere tale valenza l’episodio della cerimonia di proclamazione dei dottori di ricerca dell’Università di Verona in data 15.09.2014 per le peculiarità il contesto e le modalità con cui esso si è svolto, ben descritte dai convenuti; per contro rientra nella scorrettezza censurata dall’art. 2598 n. 1 e 3 c.c. l’allestimento effettuato nella manifestazione Expo 2015 di Milano, visibile nella documentazione fotografica attorea doc. 29 in cui campeggia la scritta “Fam. Amarone” in cui risultano presenti non solo vini a d.o.c.g. “A.V.”, ma anche a diversa denominazione od indicazione geografica

Anche il riferimento nella pubblicità svolta dal Consorzio ad un più restrittivo disciplinare di produzione integra scorrettezza professionale valorizzabile ex art. 2598 n. 3 c.c.e poiché se è vero che nella pubblicità si dà conto del fatto che trattasi di disciplinare meramente “volontario”, nondimeno il pubblicizzare detto disciplinare volontario senza che siano rispettati i criteri imposti per i codici di condotta “volontari” dal D.Lgs. n. 206 del 2005, integra modalità pubblicitaria contraria a correttezza professionale.

Nel M.A. (v doc 13 e poi doc 14 attorei), ampiamente pubblicizzato, concorrono sia l’illecito accostamento della parola “A.” con le connotazioni laudative ad essa “agganciate” sia la illecita pubblicità del disciplinare volontario privo delle connotazioni ex lege richieste per la sua pubblicizzazione come si è detto.

Un tanto è sufficiente a concretizzare la concorrenza sleale lamentata dagli attori in capo ai convenuti

Conseguentemente va inibito a L.F. soc. cons. a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, lo svolgimento di attività promozionale avente ad oggetto il vino a d.o.c.g. “A.V.” condotta riferendosi ad “A.A.” e/o ad un disciplinare volontario più restrittivo di quello della Docg.

Va altresì ordinato a L.F. soc. cons. a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, di rimuovere dal proprio sito web il c.d. “M. dell’ Amarone d’Arte” e inibito l’ utilizzo di tale “M.”, ivi inclusa la pubblicazione anche per estratto sul proprio o su altri siti web, nonché di qualsiasi mezzo promozionale che rappresenti il vino a d.o.c.g. “A.V.” prodotto dai suoi soci in accostamento con l’espressione “d’arte” c/o facendo riferimento al rispetto di un regolamento diverso dal disciplinare di produzione;

Va inibito altresì ad (…)  l’uso anche parziale della d.o.c.g. “A.V.” e/o di sua parte distintiva quale “A.” unitamente all’accostamento a tale docg o a sua parte distintiva della espressione “d’Arte”, ed altresì l’uso anche parziale della d.o.c.g. “A.V.” per promuovere prodotti di diversa denominazione od indicazione geografica, (…)

Trattandosi di misure afferenti concorrenza sleale non sono irrogabili penali industrialistiche ex art. 124, co. 2, D.Lgs. n. 30 del 2005 come specificamente invece richiesto dagli attori.

La condanna generica al risarcimento del danno postula unicamente quale suo presupposto l’accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose, restando impregiudicato quello( la cui valutazione è riservata al giudice della liquidazione), relativo alla esistenza e all’entità effettiva del danno: il presupposto della potenziale dannosità della attività di sleale concorrenza sussiste di tal che va pronunciata la condanna generica dei convenuti a risarcire il danno in favore dei produttori “concorrenti” che hanno agito in giudizio.

La portata delle violazioni rende opportuno disporre ai sensi degli artt. 126, D.Lgs. n. 30 del 2005 e 2600, co. 2, c.c. la pubblicazione della intestazione e del dispositivo della presente sentenza per due volte su “Il Sole 24 Ore” e “Il Corriere della Sera” a spese dei convenuti in caratteri doppi del normale nonché la pubblicazione sulla pagina principale (home page) dei rispettivi siti web dei convenuti per una durata di giorni 10.

Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo

P.Q.M.

Il Tribunale definitivamente pronunciando

1) rigetta l’istanza di rinvio pregiudiziale alla corte di Giustizia formulata dai convenuti

2) accoglie l’eccezione di carenza di legittimazione attiva del Consorzio di Tutela attoreo limitamente alla domanda di risarcimento dei danni in favore dei produttori che non hanno agito in giudizio, rigettandola per il resto.

3) accerta la illicietà della denominazione delta società convenuta e del suo uso;

4) conseguentemente inibisce a L.F. soc. cons. a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, l’uso nella propria denominazione sociale della menzione tradizionale “A.” e di ogni riferimento alla d.o.c.g. “A.V.”, ordinando a detta società convenuta di provvedere alla modificazione della denominazione sociale di cui trattasi con eliminazione da essa di ogni riferimento alla d.o.c.g. “A.V.” o di sue parti distintive quale “A.” e così pure dal nome a dominio dei siti web www.amaronefamilies.it e ww.amar.one.

5) accerta la nullità del marchio nazionale di cui alla domanda in data 24.5.2010 n. (…) registrato il 27.01.2011 con il n. (…) per le classi merceologiche n. 35 e 41 con successiva limitazione dei servizi protetti effettuata con la seguente dicitura: “tutti i servizi si riferiscono a vini conformità con la denominazione di origine protetta A.V.”.

6) inibisce l’uso del marchio di cui al punto 5) a L.F. soc. cons. a r.l., nonché ai suoi soci (…) in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore , pone a carico di ciascun convenuto una somma di Euro 30,00 in favore del Consorzio per la T.V. per ogni violazione od inosservanza rispettivamente da ciascuno posta in essere alla inibitoria di cui al presente capo, penale applicabile dopo il trentesimo giorno dalla pubblicazione della sentenza

7) ordina ad (…) di rimuovere il marchio di cui al punto 5) della presente sentenza dai rispettivi prodotti destinati alla commercializzazione, fissando ex art. 124, co 2, D.Lgs. n. 30 del 2005, la somma di Euro 100,00 in favore del Consorzio per la T.V. per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento di cui al presente capo penale applicabile dopo il trentesimo giorno dalla pubblicazione della sentenza.

8) accerta e dichiara che (…) anche con il concorso de L.F. soc. cons. a r.l., hanno posto in essere, atti di concorrenza sleale ex art. 2598, nn. 1 e 3, c.c.;

9) inibisce a L.F. soc. cons. a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, lo svolgimento di attività promozionale avente ad oggetto il vino a d.o.c.g. “A.V.” condotta riferendosi ad “A.A.” e/o ad un disciplinare volontario più restrittivo.

10 ) ordina 2 L.F. soc. cons. a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, di rimuovere dal proprio sito web il c.d. “M.A.” e inibisce l’utilizzo di tale “M.”, ivi inclusa la pubblicazione anche per estratto sul proprio o su altri siti web, nonché di qualsiasi mezzo promozionale che rappresenti il vino a d.o.c.g. “A.V.” prodotto dai suoi soci in accostamento con l’espressione “D.A.” e/o che faccia riferimento al rispetto di un regolamento volontario diverso dal disciplinare di produzione;

11 ) Inibisce altresì ad (…) in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, l’uso anche parziale della d.o.c.g. “A.V.” o di sua parte distintiva quale “A.” con l’accostamento della espressione “D.A.”, ed altresì l’uso anche parziale della d.o.c.g. “A.V.” per promuovere prodotti di diversa denominazione od indicazione geografica

12 ) condanna in via generica i convenuti a rifondere ai produttori attori i danni arrecati con te condotte di concorrenza sleale

13) ordina la pubblicazione della intestazione e del dispositivo della presente sentenza per due volte su “Il Sole 24 Ore” e su “Il Corriere della Sera” a spese dei convenuti in caratteri doppi del normale nonché la pubblicazione della intestazione e dei dispositivo della presente sentenza sulla pagina principale (home page) dei rispettivi siti web dei convenuti per una durata di giorni dicci

14 ) condanna i convenuti in solido a rifondere agli attori le spese di lite che liquida in complessivi Euro 1063,00 per anticipazioni, Euro 21.387,00 per competenze professionali, oltre spese generali, IVA e CPA sugli importi assoggettabili.

Così deciso in Venezia, il 25 luglio 2017.

Depositata in Cancelleria il 24 ottobre 2017.

 


La citata decisione, resa dal Tribunale in 1^ grado, è stata successivamente confermata dalla Corte d’Appello di Venezia, mediante sentenza del 10 ottobre 2019, n.4333:

.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

La Corte di Appello di Venezia

Sezione specializzata in materia di impresa

riunitasi in camera di consiglio, nelle persone di

dott. Guido Santoro – presidente rel.-

dott. Caterina Passarelli – consigliere –

dott. Lisa Micochero – consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta al ruolo il 03/01/2018 al n. 26/2018 R.G., promossa con atto di citazione notificato

DA

L.F. SOC. CONS. A R.L. (già L.F. SOC. CONS. A R.L.), in persona del presidente del Consiglio d’Amministrazione pro tempore dott.ssa M.S.T., con sede in Via S. n. 21/C – 37124 V., Cod. Fisc. e Part. Iva (…);

AGRICOLA F.T. S.R.L. (c.f. e p.IVA (…)), con sede legale in 37029 S. P. in C. (V.), loc. P., via G. V. n. 4/A, in persona del legale rappresentante pro tempore sig.ra M.S.T.;

AZIENDA AGRICOLA B.L. (c.f. e p.IVA (…)), con sede legale in 37029 S. P. in C. (V.), via C. n. 10, in persona del legale rappresentante pro tempore sig. L.B.; S.C. (c.f. (…)), quale titolare della ditta individuale

AZIENDA AGRICOLA B.C. (p.IVA (…)), corrente in 37029 S. P. in C. (V.), via B. n. 20;

C.G. S.R.L. (c.f. e p.IVA (…)), con sede legale in 37022 F. (V.), via G. n. 9/11, in persona del legale rappresentante pro tempore dott.ssa M.A.;

G.R. AZIENDA AGRICOLA S.S. (c.f. e p.IVA (…)), con sede legale in 37011 B. (V.), strada C. n. 2, in persona del legale rappresentante pro tempore sig.ra M.C.L.;

M.A. S.P.A. (c.f. e p.IVA (…)), con sede legale in 37015 S. di V. (V.), loc. G., via M. n. 26, in persona del legale rappresentante pro tempore sig. S.B.;

M. S.S. AGR. (c.f. e p.IVA (…)), con sede legale in 37036 S. M. B. A. (V.), loc. F., via F. n. 2, in persona del legale rappresentante pro tempore sig. E.P. di Bisceglie;

SOCIETÀ AGRICOLA V.M. S.S. (c.f. e p.IVA (…)), con sede legale in 37029 S. P. in C. (V.), loc. S. F., via S. n. 20, in persona del legale rappresentante pro tempore sig. D.V.;

S.V. S.S. AGR. (c.f. e p.IVA (…)), con sede legale in 37029 S. P. in C. (V.), via F. n. 14, in persona del legale rappresentante pro tempore sig. G.S.;

T.S.A., A., T. E P. S.S. AGR. (c.f. e p.IVA (…)), con sede legale in 37030 C. ai C. (V.), via C. n. 23, in persona del legale rappresentante pro tempore sig. M.C.;

T.V. S.S. AGR. (c.f. e p.IVA (…)), con sede legale in 37029 S. P. in C.ariano (V.), loc. P., via R. n. 4, in persona del legale rappresentante pro tempore sig. D.T.;

Z.A. S.R.L. (c.f. e p.IVA (…)), con sede legale in 37019 P. del G. (V.), via S. B. n. 8, in persona del legale rappresentante pro tempore sig. A.Z.;

tutti rappresentati e difesi, congiuntamente e disgiuntamente giusta procura alle liti conferita in calce all’atto di citazione d’appello dagli avv.ti Franco Zumerle del foro di Verona e Federico Zanardi del foro di Torino, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Franco Zumerle sito in Verona, C.so Porta Nuova, 11, nonché presso i rispettivi indirizzi di posta elettronica certificata;

– parti appellanti –

CONTRO

CONSORZIO T.V. (c.f. (…), p.IVA (…),

AZIENDA AGRICOLA R.G. S.S. AGR. (c.f. e p.IVA (…)),

AZIENDA AGRICO-LA Z.C. S.S. AGR. (c.f. e p.IVA (…)),

C.C. SOC. COOP. AGR. (c.f. e p.IVA (…)),

C.S. SOC. COOP. AGR. (c.f. e p.IVA (…)),

C.V. S.P.A. (c.f. e p.IVA (…)),

SOCIETÀ AGRICOLA C.F. S.S. (c.f. e p.IVA (…))

SOCIETÀ AGRICOLA C.R. S.S. (c.f. e p.IVA (…))

tutti rappresentati e difesi in causa dagli avv.ti Stefano Dindo e Luca Andretto e tutti elettivamente domiciliati presso lo studio dei difensori in 37121 Verona, via Leoncino n. 16, nonché presso i propri rispettivi indirizzi p.e.c.;

– parti appellate –

nonché contro

Società Agricola C.R. s.s. (c.f. e p.IVA (…)) non costituitasi in causa;

– appellata contumace –

avente per oggetto: Brevetto di modello di utilità – appello avverso la sentenza n. 2283/17 del tribunale di Venezia, sezione specializzata in materia di impresa, pronunciata in data 25-7-2017 e pubblicata in data 24-10-2017.

Causa rimessa al Collegio in decisione all’udienza di discussione del 4 giugno 2019

In fatto

Le origini della controversia

La presente causa vede contrapposti, da un lato, il “Consorzio T.V.” (d’ora in avanti per comodità espositiva, anche solo “Consorzio”) nonché alcune delle imprese consorziate (AZIENDA AGRICOLA R.G. ed altri S.S., quest’ultima non costituitasi nel presente grado di appello) e, dall’altro, la società consortile a responsabilità limitata “L.F.” (d’ora in avanti, per brevità, anche solo “L.F.”), nonché dodici delle imprese socie di tale società, che sono peraltro pure imprese facenti parte del predetto consorzio di tutela (AGRICOLA F.T. ed altri S.R.L.).

La controversia prende origine dall’iniziativa assunta dal Consorzio, qualificatosi come “consorzio riconosciuto ai sensi dell’art. 17, comma 1 e 4, D.Lgs. n. 61 del 2010 dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali … con riferimento alle d.o.c. Valpolicella, “Valpolicella Ripasso” e alle d.o.c.g. “A.V.” e “Recioto della Valpolicella”” e dalle sette imprese consorziate per reagire a quattro fondamentali condotte (definite dal Consorzio “mosse”) che vengono imputate a “L.F.” e alle di lei socie.

Si tratta delle seguenti quattro condotte:

I) la costituzione di una società consortile, con una denominazione (“L.F.”) e un oggetto sociale (promozione del “vino A.”) programmati in modo da aiutare l’attività di promozione del prodotto “A.A.”;

II) registrazione di un “logo” in cui compare la dizione “F.A.” come marchio commerciale sia in Italia che in Europa per le classi 35 e 41, con successiva richiesta di registrazione anche per la classe 33 (vini) in sede europea, e la riproduzione dello stesso Logo quale bollino applicato su ogni bottiglia di vino a d.o.c.g. “A.V.” prodotto dalle imprese socie;

III) diffusione di un “Manifesto dell’A.A.”, dal quale, secondo il Consorzio, si desume che esista un vino così denominato, dotato di caratteri peculiari e distinto dagli altri vini d.o.c.g. “A.V.”: vino qualificato come “prezioso” le cui qualità “vanno riconosciute con il giusto prezzo” essendo tale “A.A.” “messaggero del made in Italy nel mondo”, con la precisazione che “L.F. garantiscono in ogni bottiglia l’A. con la “A” maiuscola” (dicitura, questa, eliminata dopo l’estate 2014);

IV) comunicazione al mercato in varie occasioni che tutti i soci rispettano un disciplinare di produzione definito “più restrittivo” rispetto a quello ufficiale adottato con il decreto ministeriale di riconoscimento della d.o.c.g.

Sulla base di tali fatti, le domande del Consorzio sono state, in sintesi, dirette a far accertare:

(a) la illegittimità dell’uso nella denominazione sociale della società “L.F.” della menzione tradizionale “A.” e/o un elemento costitutivo distintivo della d.o.c.g. “A.V.” (per violazione degli artt. 26 co.1 D.Lgs. n. 61 del 2010, art. 5, co. 1, D.Lgs. n. 297 del 2004, artt. 103, par. 2 lett. a), 113, par. 2, Reg. UE 1308/2013, artt. 19, par. 3 e 40 par. 2 reg. CE 607/2009 e, quanto alla separazione della menzione “A.” dal toponimo “Valpolicella” (in violazione degli artt. 19, par. 3, Reg. CE 607/2009 in combinato disposto con l’all. XII parte B dello stesso regolamento), con conseguente richiesta di inibitoria dell’uso del termine “A.” nella denominazione, nonché del nome a dominio www.amarone families.it e www.amar.one;

(b) la nullità del marchio figurativo registrato da “L.F.” presso l’Ufficio italiano brevetti (1412172 del 27-1-2011) per contrarietà alla legge art. 25, lett. b, e 14, co.1 lett. a) e b) D.Lgs. n. 30 del 2005 e in violazione dell’art. 29 D.Lgs. n. 30 del 2005, dell’art. 20, co. 1, 2 e 4 D.Lgs. n. 61 del 2010 nonchè dell’art. 102, par. 1, Reg. UE n. 1308/2013 e degli artt. 19, par. 3, 40, par. 2 e 41 par. 1, Reg. CE n. 607/2009, con conseguente inibitoria del marchio alla società L.F. e alle imprese di essa facenti parte ed evocate in giudizio e ordine di ritiro dal commercio di ogni prodotto recante il marchio;

(c) la concorrenza sleale posta in essere dalle dodici imprese socie de “L.F.” in danno degli altri produttori di vino d.o.c.g. “A.V.”, con inibitoria dello svolgimento di attività promozionale avente ad oggetto il vino “A.V.” mediante riferimento a tale prodotto come “A.A.” e/o come vino prodotto con regole diverse o più restrittive rispetto a quelle previste dal disciplinare adottato dal Ministero delle Politiche Agricole nonché comunque l’utilizzo di loghi che inducessero nel consumatore a ritenere che esistano prodotti di serie “A” e prodotti di serie “B” nell’ambito della produzione della stessa d.o.c.g. “A.V.”.

Le domande del Consorzio si sono dirette, dunque, sotto tre principali direttrici nei riguardi:

(a) della denominazione sociale della società “L.F.”;

(b) della nullità del marchio nazionale apposto dai soci della società “L.F.” sulle bottiglie d.o.c.g. “A.V.” (si tratta di una composizione grafica nella quale una lettera “A” al centro e in stampatello maiuscolo è circondata da una cornice circolare formata superiormente da motivi ornamentali e inferiormente da due diciture, anch’esse in stampatello maiuscolo; la prima più esterna compone la scritta “F.A.”, la seconda più interna compone la scritta “A.F.”): questa la rappresentazione grafica del marchio:

Omissis

(c) dell’addebito di concorrenza sleale (utilizzazione della menzione protetta per promuovere selettivamente i propri prodotti e ciò anche per quelli di diversa denominazione o indicazione geografica; svolgimento di attività promozionale e commerciale volta ad indurre erroneamente i consumatori a ritenere che esistesse un vino denominato “A.A.” o di serie A o con la A maiuscola, in violazione degli artt. 20, o. 1 e 2, 23 co. 3, e 26 co. 2 D.Lgs. n. 61 del 2010 nonché dell’art. 2598 n. 1 e 3 c.c. edegli art. 20 co. 1 e 21 co. 2 lett. a) D.Lgs. n. 206 del 2005.

Mette conto rilevare che in questo contendere non vengono in rilievo le questioni, che sovente sollevano le controversie in tema di denominazione di origine protetta (d.o.c., d.o.c.g., i.p.g.), circa il mancato rispetto del disciplinare dei prodotti realizzati, commercializzati e pubblicizzati da imprenditori terzi o la loro mancata (totale o parziale) provenienza dal luogo di origine della d.o.c.g. o, ancora, il mancato possesso delle caratteristiche proprie della DOP. Il Consorzio riconosce infatti espressamente che gli appellanti “rispettano … il disciplinare “normale” e che “sono buoni produttori o imbottigliatori di A.V.” (comparsa conclusionale, pag. 7), ma sostiene che il vero nodo problematico delle attività de L.F. e dei suoi associati è rappresentato dal fatto che gli appellanti sono “sono tredici degli oltre duecento produttori di A.V. e degli oltre duemila soci del Consorzio T.V.” e che “non possono cercare di diversificarsi cercando di introdurre la suggestione che il loro vino sia di qualità superiore a quella di chi, malcapitato, non faccia parte del loro gruppo” (ivi).

Il consorzio sostiene invero che gli appellanti abbiano sì diritto di promuovere i loro vini, ma non “a scapito degli altri produttori, autoproclamandosi gli alfieri “dell’A.A.” così ledendo i diritti dei consumatori, che hanno diritto di poter far affidamento sul fatto che, se una bottiglia si fregia della denominazione “A.V.”, rispetti quel disciplinare vagliato e approvato a norma di legge, senza che vi sia il dubbio che quel disciplinare non sia sufficientemente “restrittivo” e che, quindi, il prodotto non sia “d’Arte” e senza ledere il diritto degli altri produttori, con illegittima attività concorrenziale” (comparsa conclusionale, pag. 8).

In estrema sintesi la tesi del Consorzio (e delle sette imprese di cui sopra) deduce che la elaborazione di un diverso disciplinare per la DOP “A.V.” elaborato da privati (quali sono L.F.) “approvato dalla legislazione comunitaria, ma con possibilità di differenziarsi aggiungendovi qualcosa (comunque al di fuori di ogni controllo)” con la giustificazione che questo disciplinare sarebbe “più restrittivo” rispetto a quello “normale” e tale da “garantire la DOP “d’Arte”, con esclusione, quindi, di tutti gli altri operatori dalla possibilità di utilizzare questo termine tramite un marchio “DOP d’Arte”” (e con redazione anche di un “manifesto” della DOP “d’Arte”), sì da suggerire l’idea che si tratti di “una DOP di serie A, “d’Arte” appunto, a fronte di un’altra che segua un diverso disciplinare meno restrittivo” finirebbe per decretare la “fine del sistema delle denominazioni d’origine” come ora vigente.

La linea difensiva seguita dagli appellanti si è in buona sostanza articolata – oltre che mediante la proposizione di eccezioni di indole pregiudiziale-preliminare -:

– nel sostenere la compatibilità con la disciplina comunitaria delle iniziative (in particolare del marchio) assunte, segnatamente con quanto previsto dall’art. 103 par. 1 regolamento UE 1308/2013 (e chiedendo anche il rinvio alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE sull’interpretazione degli artt. 102, 103 e 113 Reg. UE 1308/2013), richiamando gli esiti del procedimento sulla domanda di brevetto europeo concernente il medesimo marchio qui in discussione;

– nell’escludere la violazione da parte del marchio delle disposizioni del disciplinare e, in particolare, dell’art. 7.1. che non consente specificazioni aggiuntive;

– nel contestare in fatto la esistenza o comunque la riferibilità ad essi di alcune delle condotte di concorrenza sleale addebitate dal Consorzio.

La sentenza appellata.

Con la sentenza qui appellata il tribunale di Venezia, sezione specializzata in materia di impresa, esposte le prospettazioni del Consorzio e delle sette imprese attrici (pag. 7-11), nonché quella de “L.F.” (pag. 11-15), dopo aver proceduto alla ricostruzione della disciplina normativa, interna e europea, in tema di DOP (pag. 15-16), ha preso in separata disamina le questioni sollevate dalle parti, nei termini che, avuto riguardo a quanto qui ancora di interesse alla luce dei motivi di appello formulati, possono sintetizzarsi come di seguito.

1) La “questione pregiudiziale”.

Innanzi tutto, il tribunale ha preso in esame la “questione pregiudiziale”, relativa all’interpretazione della normativa comunitaria e alla compatibilità della previsione nazionale di cui al D.Lgs. n. 61 del 2010, ritenendo che il rinvio alla Corte di Giustizia che i convenuti avevano sollecitato non avesse ragion d’essere alla luce del “considerando” n. 28 del previgente Regolamento CE 479/2008 e n. 93 del vigente regolamento UE n. 1308/2013, “non senza osservare che il rinvio non è in ogni caso necessario ai fini della decisione per quanto si dirà infra” (pag. 16);

2) La legittimazione attiva.

Il tribunale ha poi ritenuto la “legittimazione attiva” del Consorzio con riferimento: 2.1. alle richieste concernenti la denominazione sociale, contestata dai convenuti sul rilievo che si tratterebbe di potere sanzionatorio riservato al Ministero; 2.2. alla domanda di accertamento della concorrenza sleale (con esclusivo riguardo all’azione diretta alla condanna generica al risarcimento); 2.3. alla domanda di nullità del marchio.

3) La denominazione sociale della società consortile “L.F.”.

Il tribunale di Venezia ha ritenuto la fondatezza della domanda diretta all’accertamento dell’illegittimità per contrarietà della denominazione della società “L.F.” con la previsione dell’art. 5 del D.Lgs. n. 297 del 2004 (che vieta l’uso della denominazione protetta nella denominazione sociale di un’organizzazione diversa dal consorzio di tutela), disposizione vigente all’epoca della assunzione di quella denominazione da parte de “L.F.” (precisando che si tratta di divieto poi ribadito nell’art. 26, co. 2, D.Lgs. n. 61 del 2010 e – nell’attualità – dalla L. n. 238 del 2016). Il tribunale ha, in conseguenza, inibito l’uso della menzione tradizionale “A.” e ogni riferimento alla d.o.c.g. “A.V.”, con ordine di modificazione della denominazione sociale come dal nome a dominio dei siti web www.amaronefamilies.it e www.amar.one.

4) Il marchio nazionale registrato.

I primi giudici hanno ritenuto che alla luce delle disposizioni dell’art. 25 lett. b) in relazione all’art. 14 co. 1 lett. b) c.p.i. per contrasto con la disposizione di legge di cui all’art. 4 D.Lgs. n. 61 del 2010 e del disciplinare della d.o.c.g. (art. 7, co. 1) il marchio de “L.F.” fosse nullo e ne ha inibito l’uso, prevedendo l’applicazione di una penale con ordine di rimozione del marchio dai prodotti.

5) Gli illeciti concorrenziali.

Il tribunale ha ravvisato la sussistenza dell’illecito concorrenziale:

– di cui all’art. 2598 n. 3 c.c. nell’uso del marchio e comunque dell’espressione “A.A.”;

– di quello previsto dai nn. 1 e 3 dell’art. 2598 cit. nell’episodio dell’allestimento effettuato nell’ambito della manifestazione fieristica Expo 2015 di Milano;

– dell’illecito ex art. 2598 n. 3 c.c. nel riferimento pubblicitario ad un più restrittivo disciplinare “volontario” di produzione nonché nell’accostamento della parola “A.” a connotazioni laudative entrambi presenti nel “Manifesto dell’A.A.”;

e ha pertanto inibito lo svolgimento di tale attività promozionale, pronunciando condanna generica al risarcimento dei danni.

Il processo di appello

A fronte dell’atto di appello formulato da “L.F.” e da tutte le singole imprese convenute in primo grado, si sono costituiti nel presente grado il Consorzio e sei delle originarie attrici, essendo rimasta contumace la Società Agricola C.R. s.s.

A seguito dell’istanza di sospensione della provvisoria esecutività della sentenza appellata proposta dagli appellanti, i quali hanno fatto presente di aver dato attuazione alla sentenza gravata ad eccezione dell’ordine di pubblicazione della sentenza stessa e di rimozione del marchio dalle bottiglie, la corte – con ordinanza 5-8 giugno 2018 – ha accolto la richiesta di inibitoria con esclusivo riguardo all’ordine di pubblicazione della sentenza.

All’udienza del 5 febbraio 2019, precisate dalle parti le rispettive conclusioni, come in epigrafe riportate, sono stati concessi alle parti i termini di cui all’art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.

A seguito di rituale richiesta della parte appellante, è stata fissata udienza per la discussione orale della causa.

All’udienza del 4 giugno 2019, all’esito della discussione orale fra le parti, la causa è stata riservata per la decisione.

In diritto.

1.1. Con il primo motivo le parti appellanti sottopongono a censura la decisione del tribunale di non dar corso al rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia (punto 1).

Essi denunciano violazione di legge nella parte in cui il giudice di prime cure ha respinto l’eccezione preliminare sollevata dagli originari convenuti, ed odierni appellanti, circa la necessità di sottoporre alla Corte di Giustizia Europea, ai sensi dell’art. 267 TFUE una questione pregiudiziale. In proposito il tribunale ha osservato che “sia il considerando n. 28 del previgente regolamento CE n. 479/2008 nonché il considerando n. 93 del vigente regolamento CE n. 1308/2013 quest’ultimo tuttora in vigore prevedono che gli stati membri possano applicare norme più rigorose; il considerando contribuisce a specificare l’oggetto e la portata del testo normativo di tal che la normativa nazionale su denominazioni di origine, indicazioni geografiche e menzioni tradizionali qualora preveda standard di tutela più rigorosi non si pone in contrasto con la corrispondente normativa europea che vieta adozione di normative nazionali con standard inferiori di tutela. Ritiene dunque il Collegio sul punto che non sussistano dubbi interpretativi tali da consigliare il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267 T.F.UE su quanto indicato da parte convenuta. Non senza altresì osservare che il rinvio non è in ogni caso necessario ai fini della decisione per quanto si dirà infra”.

Il motivo sostiene che il “considerando” richiamato dal tribunale (93 del regolamento UE 1308/2013), oltre a non avere una “portata precettiva autonoma”, non si riferirebbe alla questione relativa alla convivenza tra marchi commerciali e denominazione protette, bensì alle “caratteristiche di qualità dei vini a denominazione di origine protetta o a indicazione geografica protetta, questione del tutto diversa rispetto a quella su cui invece verte la presente controversia” e non potrebbe, in conseguenza, fondare la prevalenza del diritto nazionale su quello comunitario.

La doglianza deduce che, per poter definire la questione della validità della registrazione italiana di marchio n. 1412172 oggetto di causa, occorre chiarire come debbano essere interpretati gli artt. 102, 103 e 113 del regolamento UE 1308 in relazione al divieto posto dall’art. 20 del D.Lgs. n. 61 del 2010 (disposizione normativa nelle more abrogata, ma applicabile alla controversia ratione temporis).

1.2. Le parti appellate hanno preliminarmente osservato che il motivo non si fa carico di sottoporre a censura tutte le argomentazioni poste dal tribunale a base del rigetto della richiesta di rinvio alla Corte di giustizia, ma unicamente quella che richiama il “Considerando”.

1.3. Ed invero, dallo stesso tenore della parte di sentenza che le parti appellanti hanno indicato (ritrascrivendola pedissequamente) emerge che il tribunale, oltre all’argomentazione tratta dal menzionato “Considerando” ha ritenuto che “il rinvio non è in ogni caso necessario ai fini della decisione per quanto si dirà infra”.

Vi è, dunque, un esplicito riferimento nella sentenza appellata ai rilievi e alle argomentazioni di seguito esposte al fine di ritenere che il rinvio “non è in ogni caso necessario ai fini della decisione”.

La successiva motivazione ha ritenuto l’invalidità del marchio oggetto di causa sulla scorta di rilievi attinenti: (a) alla violazione dell’art. 7.1 del disciplinare di produzione dei vini d.o.c.g. “A.V.” che contiene il divieto di affiancare alla denominazione protetta specificazioni laudative (come nella specie ritenute quella “d’Arte” (cfr. sentenza appellata, pag. 21-22); (b) alla idoneità del marchio a indurre in errore il consumatore, facendo credere l’esistenza di una “sottocategoria” nell’ambito del d.o.c.g. non prevista nel disciplinare di produzione approvato (cfr. sentenza appellata, pag. 22; punti la cui fondatezza si avrà modo in appresso di verificare).

Il motivo non incontra tali concorrenti rationes decidendi del rigetto dell’eccezione preliminare, mentre per essere ammissibile, avrebbe dovuto sottoporre a critica non solo la motivazione imperniata sul “Considerando”, ma altresì quelle – pure esplicitamente richiamate – che sono, nella argomentazione sviluppata dal tribunale – di per sé sole idonee a sorreggere la decisione circa la non rilevanza della questione sollevata con la richiesta di rinvio pregiudiziale.

In difetto di ciò (nonché di una qualsiasi pertinente replica sul punto da parte delle appellanti negli scritti conclusivi), il motivo non supera il vaglio di ammissibilità.

2. Il secondo motivo si dirige avverso la declaratoria di illegittimità della denominazione sociale “L.F.” della società consortile qui appellante (sentenza appellata, pag. 19 s.), formulando cinque autonome censure, che vanno passate in separata disamina (da sub. 2.1 a 2.5.).

2.1.1. Gli appellanti eccepiscono che la normativa richiamata dal tribunale per fondare la sua decisione (art. 26 D.Lgs. n. 61 del 2010) prevede una sanzione amministrativa il cui accertamento e irrogazione sono riservati al Ministero delle politiche agricole alimentari, onde la statuizione con la quale è stata ordinata la modificazione della ragione sociale del Consorzio sarebbe stata adottata dai primi giudici in difetto di giurisdizione.

2.1.2. Sul punto gli appellati hanno osservato che la deduzione, già svolta in prime cure, era stata respinta dal tribunale sulla scorta della valenza meramente civilistica che la norma in questione aveva rivestito nella controversia per cui è causa.

2.1.3. La corte osserva che la motivazione in proposito somministrata dal tribunale, con puntuale riscontro dei riferimenti normativi, appare corretta e pienamente condivisibile.

Se è pur vero che la normativa richiamata prevede una sanzione amministrativa da parte del Ministero, non è men vero che – come ricordato dal tribunale – sin dalla L. n. 526 del 1999 ai consorzi di tutela riconosciuti dal Ministero sono attribuiti funzioni di tutela, promozione, valorizzazione, informazione del consumatore e cura generale delle “indicazioni geografiche” con espressa previsione di collaborazione con il Ministero “alla tutela e alla salvaguardia della DOP e della IGP da abusi, atti di concorrenza sleale, contraffazioni, uso improprio delle denominazioni tutelate e comportamenti vietati dalla legge” e con specificazione che si tratta di attività “esplicata ad ogni livello e nei confronti di chiunque, in ogni fase della produzione, della trasformazione e del commercio”.

Un tale assetto normativo è stato ribadito dalla legislazione successiva:

– l’art. 17 D.Lgs. n. 61 del 2010 al comma 4 lettera c) abilita espressamente i Consorzi ad “agire in tutte le sedi giudiziarie e amministrative per la tutela e la salvaguardia della DOP e della IGP e per la tutela degli interessi e diritti dei produttori”;

– l’art. 41 co. 1 lett. c) della L. n. 238 del 2016 ribadisce le medesime competenze previste dalla L. n. 526 del 1999 ed espressamente riconferma la legittimazione del Consorzio ad “agire in tutte le sedi giudiziarie e amministrative per la tutela della salvaguardia del DOP o dell’IGP e per la tutela degli interessi e dei diritti dei produttori”.

A fronte di una espressa attribuzione come quella ora ricordata appare chiaro come il Consorzio, ferma restando la concorrente potestà sanzionatoria riservata all’ente pubblico centrale, possa agire in giudizio facendo valere (anche) i rimedi di indole civilistica con l’unico limite che si tratti di iniziative dirette alla tutela della DOP o dell’IGP, punto – questo – che neppure gli appellanti hanno potuto mettere in dubbio.

2.2.1. Gli appellanti evidenziano inoltre che l’inibitoria assunta dal tribunale relativamente al nome a dominio del sito web “www.amar.one” non ha tenuto in alcun conto che tale sito non era affatto riferibile alle “F.A.”, ma a un soggetto (tale G.S. di Vicenza) del tutto estraneo agli appellanti.

2.2.2. Gli appellati hanno osservato che la sentenza va evidentemente intesa nel senso della proibizione alle parti del processo, nella specie: a L.F. e alle imprese originariamente convenute in causa, di utilizzare il sito web.

2.2.3. La corte osserva che, anche alla luce della puntualizzazione della parte appellata, la doglianza risulta fondata.

Ed invero, se pur occorre partire dal presupposto che la sentenza non può riguardare che le parti in causa, è giocoforza rilevare che il comando giudiziale, così come espresso dalla sentenza gravata, ha ad oggetto la condanna dei qui appellanti a eliminare ogni riferimento alla d.o.c.g. “A.V.” o alle sue parti distintive, quale il termine “A.” dal nome a dominio www.amar.one.

L’estraneità di tale sito web agli appellanti, risultante dalle allegazioni di costoro, non sono è stata efficacemente contrastata dal Consorzio, il quale anzi – come già ricordato – adducendo che si dovrebbe interpretare la sentenza come inibizione agli appellanti di avvalersi di quel sito, ha – in buona sostanza – riconosciuto trattarsi di sito riconducibile a terzi e non già a “L.F.” o ai soci qui appellanti. Ne viene che va in conseguenza riformata in parte qua la sentenza gravata, con rigetto della domanda avente ad oggetto il predetto sito www.amar.one.

2.3.1. Il motivo soggiunge che la disposizione normativa sulla base della quale il tribunale di Venezia ha ritenuto di poter ravvisare la illegittimità della denominazione del consorzio (art. 5 D.Lgs. n. 297 del 2004) presupponeva la presenza di un Consorzio incaricato ex art. 1, co 1, lett. c., n.1, ossia di quel consorzio di cui all’art. 5 cit. incaricato con decreto “di svolgere le funzioni di cui all’art. 53 co. 15, della L. 24 aprile 1998, n. 128”, mentre il primo atto di legittimazione del Consorzio versato in atti risale al 2013, ossia ad epoca successiva all’assunzione della denominazione, che – pertanto – dovrebbe ritenersi del tutto lecita.

2.3.2. Gli appellati hanno replicato sostenendo che non era mai stata contestata durante il giudizio di primo grado (sino alla memoria di replica) la circostanza che il Consorzio tutelasse a far data dal 2000 la d.o.c.g. “A.V.” avendo – anzi – gli originari attori svolto difese nelle quali presupponevano quel riconoscimento (pag. 5, punto 1, della terza memoria ex art. 183, co. 6, c.p.c.: comparsa di risposta, pag. 14) e che, in ogni caso, ciò che deve intendersi vietato non è solo l’adozione, ma anche il mero uso di una denominazione sociale che comprenda una denominazione tutelata da parte di un ente diverso dal relativo consorzio di tutela incaricato. Il Consorzio ha soggiunto che, se vi fosse stata una chiara contestazione, non avrebbe avuto difficoltà a produrre tutta le necessaria documentazione idonea a superare ogni dubbio al riguardo.

2.3.3. Le parti appellanti hanno contro replicato: – che la contestazione circa la legittimazione in toto del Consorzio – certamente svolta sin dal primo atto difensivo – ricomprendeva necessariamente anche quella inerente all’asserito riconoscimento “nemmeno precisamente collocato nel tempo né documentato” del 2000; – che le difese richiamate erano state svolte in via meramente ipotetica e all’esclusivo fine di confutare le argomentazioni della controparte (come si ricava dal loro integrale tenore: “il Consorzio afferma (sebbene non produca alcunché a sostegno di quanto affermato) di tutelare la denominazione A.V. sin dal 2000 (cfr. atto di citazione avversario pag. 9 punto 4), è pertanto evidente che, secondo la ricostruzione avversaria, se il Consorzio avesse voluto, avrebbe potuto censurare il comportamento delle Famiglie sin dalla loro costituzione e quindi sin dal 2009″), nel mentre – con riferimento a quanto esposto in sede di comparsa di risposta, (ossia che il Consorzio avrebbe aumentato la superficie vinicola tra il 2007 e il 2009) ciò non varrebbe a far ritenere ammesso ” (1) né che il Consorzio abbia aumentato la superficie in veste di Ente riconosciuto (poteva ben trattarsi di una proposta veicolata dallo stesso in veste di Ente non riconosciuto), (2) né tantomeno che il Consorzio abbia aumentato la superficie in veste di Ente Incaricato ai sensi dell’art. 1 co. 1 lett. c) del D.Lgs. n. 297 del 2004, (3) né infine e comunque che un eventuale provvedimento di riconoscimento/incarico in capo al Consorzio fosse legittimo e tale da fondare la disposizione di cui all’art. 5 D.Lgs. n. 297 del 2004″.

2.3.4. Anche a prescindere dalla effettiva indispensabilità che il Consorzio – per agire a tutela della denominazione protetta – debba essere incaricato ai sensi dell’art. 1, co. 1 lett. c) D.Lgs. n. 297 del 2004 (attesa la riportata ampia sua legittimazione ad agire e la valenza esclusivamente “civilistica” della pretesa in questo contendere), la corte osserva che il Consorzio ha dedotto sin dal suo costituirsi in giudizio a chiare lettere di essere stato costituito nel 1970 per la tutela delle denominazioni protette “Valpolicella” e “Recioto della Valpolicella” e di tutelare dal 2000 anche le denominazioni “Valpolicella Ripasso” e “A.V.”, nonché di essere stato riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali Direzione Generale per la promozione delle qualità agroalimentare con riferimento alle d.o.c. Valpolicella e Valpolicella Ripasso nonché alle d.o.c.g. A.V. e Recioto della Valpolicella.

Le parti convenute – qui appellanti – non hanno mai esplicitamente negato al Consorzio la sua qualità di ente riconosciuto (anche ai sensi e per gli effetti dell’art. 5 D.Lgs. n. 297 del 2004), limitandosi in sede di memoria di replica per la prima volta ad adombrare che non era stata versata in atti la prova di un tale riconoscimento (senza neppure in questa sede negare expressis verbis che il Consorzio non possedesse quel riconoscimento).

In uno con tale linea difensiva gli allora convenuti hanno pure dedotto – come ricordato dal Consorzio – l’aumento della superficie vinicola, così alimentando vieppiù una linea difensiva non priva di ambiguità nella contestazione della qualità in capo al Consorzio attore. Tanto che di una tale questione la sentenza impugnata non fa neppure cenno, così come non si riscontrano deduzioni in sede di scritture difensive conclusionali di primo grado sino alla memoria di replica. Né, del resto, gli appellanti lamentano che il tribunale non abbia pronunciato su di una loro eccezione in proposito.

Ne viene che il difetto di una chiara contestazione al riguardo ha in effetti precluso un leale contraddittorio sul punto e la pretesa di sollevare soltanto ora – in questa sede di appello – la mancanza in capo al Consorzio della qualità mai prima fatta oggetto di una non espressa contestazione appare contrario non solo ai canoni alla luce dei quali dovrebbe dipanarsi il dibattito fra le parti in causa e al principio di ragionevole durata del processo, ma anche alle preclusioni che devono ritenersi operare in forza della previsione dell’art. 115 c.p.c.

La doglianza non merita, pertanto, accoglimento.

2.4.1. In ogni caso gli appellanti deplorano che una disposizione normativa riferita espressamente alla ragione o denominazione sociale sia stata posta a base di pronunce inerenti ai nomi a dominio (www.amaronefamilies.it e www.amar.one)

Sul punto, per evidenziare l’inaccoglibilità della censura, pare sufficiente richiamare il principio di unitarietà dei segni distintivi, come declinato nell’art. 22 c.p.i. (e desumibile anche dagli artt. 2, co. 4 e 12 c.p.i.), ove è chiaramente stabilita l’estensione del divieto di uso illegittimo di segni distintivi anche ai nomi a dominio di siti usati nell’attività economica.

2.5.1. Da ultimo con il motivo in esame gli appellanti si dolgono che il tribunale abbia potuto disporre la modifica della denominazione sociale del consorzio quale “risarcimento in forma specifica”, non solo per il già evidenziato difetto di giurisdizione dell’a.g.o. al riguardo, ma anche in difetto della prova di un qualsivoglia danno al Consorzio del quale possa essere stabilito il risarcimento.

In proposito va ritenuto che la questione relativa alla legittimità-illegittimità della denominazione sociale (e, dunque, dell’eventuale ordine di modificazione) non presuppone necessariamente un danno, la cui esistenza è presupposto indefettibile della condanna risarcitoria. E la domanda degli originari attori, come si ricava pianamente dalla sua stessa formulazione (v. epigrafe della sentenza appellata), formulava la richiesta di condanna alla modificazione della denominazione sociale quale conseguenza dell’accertamento e della declaratoria dell’uso illegittimo nella denominazione sociale della menzione tradizionale “A.” e/o di un elemento costitutivo distintivo della d.o.c.g.

La richiesta di inibitoria dell’uso della denominazione è stata fatta “anche ai sensi dell’art. 2058 c.c.”, ma essa si basa, innanzi tutto, sull’accertata illegittimità della denominazione sociale assunta dalla società qui appellante e, dunque, è sufficiente, ai fini della richiesta tutela della denominazione sociale, l’accertamento compiuto dal tribunale della illegittimità dell’uso da parte de “L.F.” della menzione “A.A.”.

A mente dell’art. 2564 c.c. (con riferimento alla ditta, ma richiamato quanto alle società dall’art. 2567 c.c.) la modificazione della ditta va disposta nel caso in cui possa creare confusione. E’, dunque, sufficiente una mera potenziale confusione per fondare la necessità di modificazione, il che è quanto ha opinato il tribunale, adottando il conseguente provvedimento.

3. Con il terzo motivo si deplora la declaratoria di nullità del marchio italiano registrato dal Consorzio qui appellante presso l’UIBM al n. 1412172 in data 27-1-2011 (si tratta della motivazione svolta da pag. 20 a pag. 24 della sentenza gravata). Il marchio in questione è rappresentato da una composizione grafica comprendente la lettera “A” in carattere maiuscolo, circondata da una cornice circolare formata, nella parte superiore, da motivi ornamentali e, nella parte inferiore, dalla dicitura “F.A.” e una dicitura più interna che compone la scritta “A.F.”. Si tratta di un cerchio di 3-4 cm di diametro che i produttori qui appellanti appongono sulla bottiglia di “A.V.” (innanzi riportato graficamente nella parte dedicata alle “Origini della controversia”).

3.1. Il motivo reca innanzi tutto la critica a quella parte della motivazione nella quale il tribunale ha osservato che il sistema di tutela della denominazione d’origine “prevede che qualsiasi “valorizzazione” di particolari metodi di elaborazione, zone i produzione ecc… che voglia fregiarsi della D.O, passi attraverso un sistema regolamentato dalla legge ed è vietato pertanto al di fuori di detta regolamentazione, accostare ad una D.O. qualsivoglia specificazione che non sia consentita dalla legge e dal disciplinare approvato”.

Si sostiene che l’assunto del tribunale non avrebbe alcun riscontro normativo e sarebbe contraddetto da orientamenti giurisprudenziali di merito (Trib. Milano, 29 giugno 2016 n. 8111: relativo al caso del Taleggio DOP e alla apposizione sui prodotti della indicazione “stagionato nelle grotte di Valsassina”). Si critica inoltre la assenza di un’effettiva motivazione in ordine all’indole “laudativa” della dizione “d’Arte”.

Il motivo prosegue asserendo che non sussistono elementi per inferire “un collegamento tra tale claim (d’Arte) ed una qualità – superiore – del vino A. Quanto alla presenza nel segno della parola “A.” e che la motivazione spesa dal tribunale per ritenere “laudativa” l’espressione “d’Arte” sarebbe meramente apparente e sostanzialmente tautologica.

Gli appellanti ricordano anche la vicenda dei due marchi europei da essi conseguiti in riferimento al marchio “F.A. – A.F.” e dell’istanza di cancellazione promossa dal Consorzio e respinta dalla Divisione di annullamento dell’EUIPO.

Nell’esposizione del motivo riguardante il marchio gli appellanti sostengono che (i.) né la presenza nel segno della menzione “A.” né (ii.) la presenza della locuzione “d’Arte” e della lettera “A” in maiuscolo comporterebbe alcun profilo di illegittimità del marchio in discussione.

3.2. L’argomentazione del tribunale resiste alle critiche rivoltele con l’appello.

3.3. E’ opportuno premettere il quadro normativo di riferimento.

Il tribunale ha ritenuto la nullità del marchio in disamina per violazione dell’art. 25, lett. b) in relazione al disposto dell’art. 14. Co. 1 lett. b) c.p.i.

L’art. 14, co. 1, cit., esclude che possano essere registrati come marchi i segni distintivi “contrari alla legge” (lett. a) e quelli “idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti e servizi”. L’art. 25 lett. b) c.p.i. commina la nullità per i marchi in contrasto con il disposto dell’art. 14 co. 1, stesso codice.

Occorre aver riguardo in proposito alle disposizioni del D.Lgs. n. 61 del 2010 richiamate dagli originari attori.

Le disposizioni del D.Lgs. n. 61 del 2010 cit. che assumono rilievo in proposito sono quelle dell’art. 20, co. 1, 2 e 4.

L’art. 20 co. 1 del D.Lgs. n. 61 del 2010 stabilisce che “dalla data di iscrizione nel registro comunitario delle d.o.p. e i.g.p., le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche non possono essere usate se non in conformità a quanto stabilito nei relativi disciplinari di produzione” (a mente dell’art. 1 del medesimo D.Lgs. n. 61 del 2010 costituiscono denominazione d’origine, per i fini del decreto, anche le menzioni tradizionali).

Il co. 2 stabilisce che “a partire dalla stessa data di cui al primo comma, è vietato qualificare direttamente o indirettamente i prodotti che portano la denominazione d’origine o l’indicazione geografica in modo non espressamente riconosciuto dai decreti di riconoscimento”.

Il co. 4 del medesimo art. 20 prevede che il riconoscimento di una denominazione d’origine esclude la possibilità di impiegare i nomi geografici utilizzati per designare i marchi (“Il riconoscimento di una denominazione d’origine o di una indicazione geografica esclude la possibilità di impiegare i nomi geografici utilizzati per designare marche e comporta l’obbligo per in nomi propri aziendali di minimizzare i caratteri alle condizioni previste dal comma 3. Sono fatte salve le eccezioni previste dalla normativa comunitaria”).

Il divieto, espressamente stabilito nel sopra riportato art. 20, co. 1, cit., dell’uso della d.o.p. e i.g.p. se non “in conformità a quanto stabilito nei relativi disciplinari di produzione” (previsione poi ribadita e meglio chiarita con l’art. 44 della L. n. 238 del 2016) impone di prendere in esame le relative disposizioni del disciplinare di produzione del d.o.c.g. “A.V.” che vengono a tal fine in rilievo: esse sono quelle dell’art. 7, primo e secondo comma.

Il primo comma stabilisce che “Alla denominazione di origine controllata e garantita dei vini “A.V.” è vietata l’aggiunta di qualsiasi specificazione diversa da quelle previste dal presente disciplinare di produzione ivi compresi gli aggettivi “extra”, “fine”, “scelto” e similari”.

Il comma 2 prevede che “È tuttavia consentito l’uso di indicazioni che facciano riferimento a nomi, ragioni sociali, marchi privati o di consorzi, purché non abbiano significato laudativo e non siano tali da trarre in inganno l’acquirente”.

Come ha ricordato anche il tribunale, il D. Lgs. è stato medio tempore abrogato e sostituito dalla L. n. 238 del 2016 che, quanto all’utilizzo delle denominazioni geografiche, delle menzioni tradizionali, e delle altre indicazioni riservate ai prodotti vitivinicoli DOP e IGP, d’origine prevede che esse “non possono essere usate se non in conformità a quanto stabilito nei relativi disciplinari di produzione, nella specifica normativa dell’Unione Europea e nella presente legge” e vieta espressamente di “qualificare, direttamente o indirettamente, i prodotti che portano le denominazioni d’origine o l’indicazione geografica in modo non consentito dal rispettivo disciplinare di produzione”.

Con riguardo alla disciplina di origine comunitaria è opportuno ricordare che:

– è previsto l’annullamento per il marchio “che contiene o è costituito da una denominazione di origine protetta e da un’indicazione geografica protetta non conforme al corrispondente disciplinare di produzione” (art. 102 Reg. UE n. 1308/2013);

– le denominazioni di origine sono protette da qualsiasi indicazione falsa o ingannevole relative alla provenienza, all’origine alla natura o alle qualità essenziali del prodotto usata sulla confezione o sull’imballaggio, nelle pubblicità o sui documenti relativi al prodotto vitivinicolo in esame (art. 103 stesso regolamento);

– è proibita qualsiasi utilizzazione commerciale diretta o indiretta della denominazione nella misura in cui tale uso ne sfrutti la notorietà (art. 103, punto 2, lett.a).

Al riguardo è opportuno precisare che non pare condivisibile la prospettazione interpretativa degli appellanti, che mirerebbe a intendere il riferimento della “conformità al disciplinare” recato nell’art. 102 reg. UE cit. con esclusivo riferimento al prodotto e non già al marchio. L’espressione letterale risulta chiara nel collegare l’annullamento del “marchio” contenente una DOP alla circostanza della non conformità al corrispondente disciplinare.

La specificazione relativa al prodotto compare soltanto nella parte finale della disposizione, chiarendo che l’ambito della previsione riguarda la conformità del “marchio contenente …” al “corrispondente disciplinare” (“La registrazione di un marchio commerciale che contiene o è costituito da una denominazione di origine protetta o da un’indicazione geografica protetta non conforme al corrispondente disciplinare di produzione o il cui uso rientra nella fattispecie dell’articolo 103, paragrafo 2, e riguarda un prodotto che rientra in una delle categorie …”).

D’altronde, accreditando l’interpretazione propugnata dagli appellanti, si giungerebbe alla inaccettabile conseguenza, ad esempio, di consentire a un produttore di DOP o IGP che rispetti il disciplinare di produzione di creare marchi recanti pure menzioni marcatamente laudative (in quanto il divieto di tali espressioni è previsto sì nel disciplinare ma non riguarda direttamente il prodotto, sibbene il marchio).

3.4. Ciò premesso, occorre prendere le mosse dalla verifica se il marchio in discussione comporti o meno la violazione delle previsioni del disciplinare dell’A.V. sopra ricordate.

Si tratta, in particolare, di verificare se contenga una “specificazione diversa da quelle previste dal presente disciplinare di produzione, ivi compresi gli aggettivi “extra”, “fine”, “scelto” e similari”, tenendo presente che è consentito “l’uso di indicazioni che facciano riferimento a nomi, ragioni sociali, marchi privati o di consorzi, purché non abbiano significato laudativo e non siano tali da trarre in inganno l’acquirente”.

Un primo dato emerge chiaramente dalla riportata disposizione del disciplinare: si è voluto escludere qualsiasi aggettivazione del prodotto tale da evidenziarne una particolare qualità o una speciale caratteristica, prevedendo espressamente la inutilizzabilità di aggettivi che indichino una particolarità del prodotto idonea a distinguerlo in termini di speciale qualità.

E si è avuto cura di escludere non solo l’impiego dei termini “extra”, “fine”, “scelto”, ma anche di tutti quelli che potessero essere “similari” a questi.

Si è poi circondata l’ammissibilità della indicazioni che fanno riferimento a “nomi, ragioni sociali, marchi privati o di consorzi” stabilendo che, anche in questo caso, non devono rivestire un significato “laudativo” e non siano tali da ingannare l’acquirente.

Il che pone la questione, lungamente dibattuta fra le parti, se la locuzione “d’Arte” possegga o meno una valenza laudativa e anche ingannatoria del consumatore.

Il collegio ritiene che la locuzione utilizzata abbia una evidente portata laudativa.

Gli appellanti menzionano il significato del termine “arte” come “capacità di agire e di produrre, basata su un particolare complesso di regole e di esperienze conoscitive e tecniche e, quindi, anche l’insieme delle regole e dei procedimenti per svolgere un’attività umana in vista di determinati risultati” e riportano pubblicità nelle quali l’espressione “d’arte” è ampiamente utilizzata, per sostenere che “la tecnica di marketing ha evidenziato che una simile espressione, comunque la si interpreti, risulta oggigiorno in ogni caso neutra per il consumatore e priva di qualsivoglia significato laudativo o discretivo” (comparsa conclusionale, pag. 44; a pag. 50 e ss. dell’atto di appello sono riportati gli slogan pubblicitari di svariati prodotti facenti uso dell’espressione “a regola d’arte”).

Il punto è – ad avviso del collegio – che la parola “arte”, come non di rado si verifica nel lessico, ha una svariata gamma di accezioni e, oltre a quella valorizzata dagli appellanti, è innegabile che essa stia a rappresentare anche la espressione originale dell’artista per giungere alla definizione di un oggetto come “opera d’arte”, così da essere adoperata in un significato privilegiato che indica un particolare prodotto culturale delle varie discipline: pittura, scultura, architettura, musica, poesia, ecc.

E, quindi, la “opera d’arte”, così come la galleria “d’arte”, il mercante “d’arte” o la mostra “d’arte”, ma anche la “città d’arte” o, per restare nel contesto veneziano, la manifestazione della “Biennale d’Arte”, conclamano usi del termine come significativi di un prodotto “artistico” e non semplicemente del rispetto delle regole e tecniche di determinate attività umane.

Il collegio, in proposito, non condivide la valutazione espressa dalla Divisione di Annullamento nel procedimento davanti all’EUIPO “La Divisione di Annullamento si sente di escludere che la lettera ‘A’ sarà percepita come un riferimento all’alta qualità di tali servizi (o dei prodotti ad essi associati) e sebbene l’espressione d’arte possa alludere al fatto che la titolare segua modalità o tecniche considerate corrette (“ad arte”) per la lavorazione di un prodotto o la fornitura di un servizio, non si tratta di un’indicazione sufficientemente chiara e specifica per dar luogo a un inganno effettivo o a un rischio sufficientemente grave d’inganno del consumatore”. Una siffatta valutazione pare tenere in conto il significato del termine “arte” e della locuzione “d’arte” come esclusivamente ristretto al rispetto delle regole tecniche di una determinata disciplina umana, ma trascura completamente l’altra freccia semantica pure presente negli indicati termini e che rimanda, altrettanto chiaramente, al prodotto “artistico”, cioè quello non meramente “artigianale” di rispetto delle regole tecniche, ma al frutto della capacità artistica dell’autore nei vari settori culturali.

In tale chiarita prospettiva va collocato il marchio per cui è controversia, non senza notare che l’apposizione di quel “bollino” recante appunto quella indicazione “d’Arte” vale a denotare nel senso comune una sorta di certificato di superiore qualità, un “A.V.” di superiori caratteristiche (rispetto a quello non munito di quel sigillo di eccellenza) e che, per tali ragioni, può fregiarsi di quella specie di suggello di eccellenza.

La studiata evidenziazione della lettera “A” che, ricorda sì la lettera iniziale della parola “A.”, ma anche – e, nell’indicato contesto ben prima e ben di più – evoca la prima lettera dell’alfabeto, da sempre utilizzata per designare la categoria più elevata di una serie, conferma e corrobora l’idea dell’appartenenza del prodotto a una fascia di “prima qualità” e, dunque, implicitamente, ma inequivocabilmente, di superiore qualità rispetto all’A.V. che di quella “A” non possa far vanto.

E’ il comportamento precedente all’instaurarsi di questa controversia tenuto dagli stessi appellanti, del resto, ad accreditare quella valenza laudativa che oggi essi si affannano a disconoscere. La stessa redazione di un “Manifesto dell’A.A.” rappresenta di per sé sola una ulteriore – seppure non necessaria – dimostrazione che l’uso dell’espressione “d’Arte” vada inteso nei termini qui accreditati. Non è necessario in proposito ricordare i vari “manifesti d’arte” che si sono succeduti nella storia dei movimenti artistici per evidenziare che la redazione di quel “manifesto” si pone in continuità con le pubbliche dichiarazioni degli intenti, dei punti di vista, delle motivazioni di un artista o di un movimento artistico, non certo di artigiani che seguono le tecniche di produzione di un vino. Le espressioni contenute in quel “Manifesto dell’A.A.” valgono a ribadire il già raggiunto approdo ermeneutico circa la valenza semantica dell’espressione utilizzata da “L.F.” (“L.F. adottano un rigido regolamento volontario per mantenere elevate le nobili caratteristiche del prodotto. L.F. appongono un ologramma esclusivo e distintivo su tutte le loro bottiglie di A., per renderle riconoscibili e garantirne l’autenticità e l’alta qualità”).

Ma ancora nel primo grado di questo giudizio, “L.F.” e i suoi soci non si sono peritati di dedurre che “non ci vuole un tecnico per capire che i requisiti imposti dal disciplinare delle Famiglie vanno univocamente nella direzione di una migliore qualità del vino prodotto” (punto 165 della comparsa conclusionale depositata in primo grado), così finendo per ammettere che la creazione del marchio aveva il preciso intento di rendere evidente all’esterno quella “migliore qualità”.

Né gli slogan pubblicitari richiamati dalla parte appellante paiono effettivamente dimostrativi della tesi da essi agitata, in quanto tesi a far apparire quei prodotti come particolarmente interessanti e appetibili proprio in ragione di essere “a regola d’arte” e, dunque, l’indole laudativa di tali espressioni non risulta affatto esclusa – ma, anzi, a vedere bene, è ribadita – da tali “claim” commerciali.

E’ appena il caso di rilevare che il precedente invocato dagli appellanti, ossia il caso della indicazione della “stagionatura nelle grotte della Valsassina” del formaggio taleggio dop, ritenuta legittima dal tribunale di Milano, non pare affatto corrispondere, come pretenderebbero “L.F.”, “esattamente” alla “fattispecie che ci occupa” (atto di appello, pag. 27). Ed invero va rimarcato che, nel caso sottoposto a questa corte, non è affatto presente l’indicazione di una specifica e particolare tecnica di produzione del vino “A.V.”, ma – ben diversamente – l’evocazione di una non meglio precisata sua natura di vino “d’Arte” in ossequio a un disciplinare che si assume diverso e più “restrittivo” di quello stabilito per la d.o.c.g., ma senza alcuna verifica ufficiale o controllo indipendente.

Neppure l’argomento con il quale gli appellanti cercano di far leva sulla circostanza che la previsione del disciplinare vieterebbe l’uso soltanto delle indicazioni che siano a un tempo laudative e ingannevoli, facendo leva sulla congiunzione “e” presente nell’art. 7.2. (“”È tuttavia consentito l’uso di indicazioni che facciano riferimento a nomi, ragioni sociali, marchi privati o di consorzi, purché non abbiano significato laudativo e non siano tali da trarre in inganno l’acquirente”).

Innanzi tutto, occorre riconoscere che l’espressione “e” nella lingua italiana può essere usata anche in funzione non solo copulativa, ma anche disgiuntiva. Si può, in altri termini, anche ritenere che la previsione del disciplinare vada intesa come segue: “È tuttavia consentito l’uso di indicazioni che facciano riferimento a nomi, ragioni sociali, marchi privati o di consorzi, purché non abbiano significato laudativo e è… consentito l’uso di indicazioni che facciano riferimento a nomi, ragioni sociali, marchi privati o di consorzi, purché non siano tali da trarre in inganno l’acquirente”.

Si tratta di tecnica di redazione di testi giuridici talora adottata, tanto che nei manuali di redazione dei testi normativi è avvertita la necessità di consigliare “per esprimere una relazione disgiuntiva inclusiva” di “evitare la parola “e” (che va riservata alle relazioni congiuntive)” e di “usare preferibilmente la parola “o” posta fra i due termini”.

D’altronde, sotto il profilo della ratio del divieto, sarebbe arduo fornire di una convincente spiegazione della necessità di stabilire la ammissibilità di espressioni laudative solo in quanto inidonee a ingannare il consumatore, essendo allora sufficiente prevedere l’esclusione dell’attitudine ingannatoria.

In ogni caso, nella concreta fattispecie di questo contendere, si ritiene che ricorra a pieno titolo anche la valenza ingannatoria dell’espressione “laudativa” (il che rileva, e in modo dirimente, anche con riguardo alla violazione della normativa comunitaria più sopra richiamata e – va evidenziato – a prescindere dalla interpretazione del riferimento alla conformità al disciplinare).

Le superiori osservazioni in ordine al significato recato dall’espressione “d’Arte”, della collocazione in primo piano della lettera “A” in carattere maiuscolo, dell’apposizione del marchio quale sigillo di qualità, valgono a evidenziare che il consumatore, a fronte di quel marchio apposto sul “bollino” presente nel collo delle bottiglie è indotto a ritenere di trovarsi di fronte a un “A.V.” di qualità superiori rispetto a quello che quella specie di “certificato di superiore qualità” non possegga e a pagare, in conseguenza, un prezzo superiore (essendo pacifico che il prezzo al quale “L.F.” vendono il vino “A.” da esse prodotto è ben superiore a quello medio delle altre aziende consorziate).

Sennonché, in assenza di qualsiasi oggettiva e indipendente verifica circa le caratteristiche del disciplinare asseritamente più rigoroso seguito da “L.F.” non può non riconoscersi un’attitudine ingannatoria a quell’espressione. D’altronde perché un consumatore sia indotto a pagare per una bottiglia di vino “A.V.” una somma ben superiore a quelle degli altri produttori, deve essere portato a ritenere che quel suggello “d’Arte” giustifichi un esborso maggiore in quanto sinonimo di una superiore qualità del prodotto (superiore qualità, come detto, in alcun modo comprovata).

Il verificato mancato rispetto delle previsioni del disciplinare e la accertata idoneità ingannatoria dell’espressione utilizzata nel marchio de “L.F.” valgono a sancirne irrimediabilmente la nullità per violazione delle previsioni del disciplinare (come richiamate dall’art. 20, co. 1, D.Lgs. n. 61 del 2016) e, a un tempo, la contrarietà anche alle previsioni comunitarie di cui agli artt. 102 (per la mancata conformità al corrispondente disciplinare di produzione) e 103 Reg. UE n. 1308/2013 (per la natura ingannevole dell’indicazione sulle qualità essenziali del prodotto), il che ribadisce – anche per tale concorrente profilo – la non necessità del rinvio sulla questione pregiudiziale sollecitato dagli appellanti.

E va pure ad abundantiam constatato che degli due profili di nullità dedotti dal Consorzio in prime cure e non presi in esame dal tribunale, ma qui riproposti (capitolo C.7 della comparsa di risposta), gli appellanti nulla abbiano replicato con riferimento a quello relativo alla mancata indicazione nel marchio per cui è causa del toponimo “Valpolicella” in violazione della previsione di cui all’art. 19, par. 3, Reg CE 607/2009 (in riferimento all’allegato. XII, parte B, del medesimo Regolamento: essendo ivi precisato che la menzione storica “A.” è “connessa esclusivamente al metodo di produzione della denominazione “Valpolicella””.

4. Con il quarto motivo (pag. 58-63 dell’atto di appello) si lamenta “violazione di legge nella parte in cui il Giudice di prime cure afferma, accogliendo la domanda degli originari attori, ed odierni convenuti, di accertamento circa le asserite condotte di concorrenza sleale poste in essere dagli odierni appellanti” (si tratta della motivazione svolta nella sentenza impugnata a pagina 24 e ss.).

Si sostiene, innanzi tutto, che la legittimità del marchio “F.A.” vale a rendere perciò solo legittimo l’uso di esso e ad escludere ogni profilo di concorrenza sleale: l’accertata nullità di quel marchio, come sopra ritenuta, priva, per ciò solo, di fondamento tale argomentazione. Rimane, dunque, accertata la violazione dell’art. 2598 (n. 3) c.c.

Con riferimento alle ulteriori condotte ritenute dal tribunale, gli appellanti hanno osservato, con specifico riguardo a ciascuna di esse, che:

a) quanto all’evento EXPO 2015: i rilievi fotografici dimessi dal Consorzio non varrebbero in alcun modo a dare riscontro alla tesi della distinzione fra A. di serie “A” e di serie “B” o “C”, attesa la genericità della allegazione, priva di effettivi e concreti elementi di riferimento, nonché della dimostrazione che si trattava di allestimento predisposto da “L.F.”;

il punto è che il tribunale ha ritenuto comprovato, alla stregua della documentazione fotografica dimessa dalla parte attrice, l’uso della locuzione “Fam. A.” per promuovere “non solo vini a d.o.c.g. “A. della Valpolicella”, ma anche a diversa denominazione o indicazione geografica”;

non si tratta, dunque, della classificazione in “A”, “B” o “C”, ma della inclusione sotto l’egida “F.A.” di prodotti non rientranti nella d.o.c.g. “A.V.”, circostanza desumibile dai rilievi fotografici in atti e non idoneamente contestata dai qui appellanti in sede di tutto il primo grado di giudizio;

quanto poi alla potenzialità dannosa di una tale condotta – non controvertibile in dubbio, in considerazione della natura della manifestazione – essa deve ritenersi sufficiente ai fini della condanna generica (v., con specifico riguardo alla concorrenza sleale, Cass. 10643/2015)

b) in riferimento alla adozione di un disciplinare volontario più restrittivo rispetto al disciplinare dell’A., in assenza del rispetto dei criteri imposti per i codici di condotta “volontari” dal D.Lgs. n. 206 del 2005, gli appellanti hanno dedotto che (i) non si applicherebbe la disciplina richiamata; (ii) la violazione di tale disciplina non varrebbe in ogni caso a integrare un atto di concorrenza sleale;

non è neppure discusso che “L.F.” e le imprese che fanno parte di tale società rispettino il disciplinare da esse volontariamente assunto, ma il punto è che non è in alcun modo idoneamente comprovato in causa che l’adozione di un tale “disciplinare” – asseritamente più “restrittivo” – conduca a un prodotto di qualità superiore (il Consorzio ha dimesso in atti il parere di un enologo che esclude qualsiasi automatismo tra il rispetto di un siffatto disciplinare e un superiore profilo qualitativo del vino rispetto a quello prodotto con il disciplinare “ordinario”: doc. 33); d’altronde, come ricorda la difesa degli appellati, sono gli stessi appellanti ad aver dedotto expressis verbis in sede di comparsa conclusionale in prime cure che “non ci vuole un tecnico per capire che i requisiti imposti dal disciplinare delle Famiglie vanno univocamente nella direzione di una migliore qualità del vino prodotto” (punto 165 della comparsa conclusionale depositata in primo grado);

ne viene che nella prospettiva che qui unicamente rileva – ossia quella della concorrenza sleale, anche a prescindere dalla diretta applicabilità delle disposizioni in tema di pratiche commerciali scorrette o ingannevoli di cui al codice del consumo – deve ravvisarsi una condotta non conforme alla correttezza professionale nell’indurre il consumatore a credere che il prodotto contenga una migliore qualità in effetti non comprovatamente esistente;

c) in riferimento alla adozione del “Manifesto dell’A.A.” gli appellanti sottolineano che si è trattato di una “temporanea iniziativa pubblicitaria già da tempo rimossa all’epoca del giudizio”;

in disparte il rilievo che l’eventuale limitazione temporale della condotta vale, da un lato, se mai, a circoscriverne gli effetti, ma, dall’altro, costituisce nondimeno ammissione del fatto, risulta in causa che al c.d. “manifesto” hanno fatto reiterato riferimento atti e iniziative nel corso di svariati anni a dimostrazione che quel “manifesto” non fu affatto un’iniziativa estemporanea e circoscritta nel tempo (v. il comunicato-stampa del 17-5-2011 e la presentazione del partecipazione de L.F. alla manifestazione della National Italian American Foundation: docc. 16 e 17).

Ne viene che anche il quarto motivo di appello è privo di fondamento e non può trovare accoglimento.

5. Alla stregua di quanto innanzi l’appello può trovare accoglimento con esclusivo riferimento alla doglianza, recata nell’ambito del secondo motivo di appello, diretta al rigetto della domanda avente ad oggetto il sito www.amar.one siccome l’ordine di rimozione da tale nome a dominio riguarda un sito di non comprovata riconducibilità ai qui appellanti; per il resto l’appello e respinto e la sentenza merita di essere in parte qua confermata.

6. Le spese processuali, liquidate come in dispositivo, con applicazione dei valori medi per le cause di valore indeterminabile di particolare importanza, seguono la prevalente soccombenza della parte appellante (in considerazione della assoluta marginalità della questione inerente al sito internet) e vanno poste a suo integrale carico.

P.Q.M.

La Corte d’Appello di Venezia, sezione specializzata in materia di impresa, ogni diversa domanda ed eccezione reiette ed ogni ulteriore deduzione disattesa, definitivamente pronunciando sull’appello proposto da “L.F.” già “L.F.” soc. cons. a r.l., nonché da AGRICOLA F.T. ed altri S.R.L. avverso la sentenza n. 2283/2017 del tribunale di Venezia, così decide:

in accoglimento per quanto di ragione del secondo motivo di appello e in parziale riforma della impugnata sentenza, che per il resto conferma, respinge la domanda formulata nei confronti dei qui appellanti avente a oggetto il sito internet “www.amar.one”;

condanna gli appellanti in solido alla rifusione delle spese processuali in favore degli appellati costituitisi in causa, spese che liquida in Euro 19.160,00 per compenso, oltre al rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15% del compenso e agli oneri fiscali e previdenziali come per legge;

dà atto della sussistenza in capo agli appellanti del presupposto procedimentale di cui all’art. 13 co. 1 quater D.P.R. n. 115 del 2002.

Così deciso in Venezia, il 23 luglio 2019.

Depositata in Cancelleria il 10 ottobre 2019.